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Landini prova a guidare la sinistra: "Si parta dal referendum". E prepara l'Opa sul Pd di Schlein

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Aldo Rosati
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Come l’araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri, il simbolo per antonomasia della resilienza e della resurrezione, una sorta di "aquila" che non muore mai. Insomma il ritratto di Maurizio Landini, una settimana dopo i flop dei referendum. Niente diversivi o gite a Budapest come Elly Schlein, (che volerà in Ungheria al Gay Pride a fine mese). «Ripartiamo da quei 13 milioni di italiani che hanno risposto al nostro appello», dice il segretario della Cgil. «È il nostro tesoretto», aggiunge sornione. Se tutti tendono a rimuovere la sconfitta, lui, con l'abilità di un grande pokerista, rilancia. L’inquilino di Corso Italia vuol far sapere che non molla, che non si pente di aver organizzato la campagna contro il Jobs Act. Figuriamoci, Maurizio il rosso è uno tosto, che dentro il sindacato ha costruito la sua roccaforte (azzerando la storica dialettica interna) e, sotto sotto, coltiva un suo disegno. Se il campo largo finisse dilaniato dal ruvido confronto tra la segretaria del Pd e Giuseppe Conte, lui è a disposizione per accompagnare la coalizione di sinistra al voto.

 

 

 

D’altra parte, Landini è già a capo di una sorta di meta-partito, che si alimenta nei salotti televisivi e nelle infinite comparsate ovunque lo chiamino. Forte anche di una fitta rete di relazioni all’interno del Pd, del M5S, di Avs, e del frastagliato arcipelago di gruppi e gruppettini spesso di estrema sinistra. Una riserva aurea che, prima o poi, potrebbe servirgli per sbarazzarsi della concorrenza; soprattutto dell’inquilina del Nazareno, tanto brava e cara (fu la prima ad aderire alla raccolta di firme sui referendum), ma oggettivamente fatta di un’altra pasta. Così, anche ieri, con 35 gradi, il tenace Maurizio è stato praticamente l’unico leader nazionale a partecipare alla marcia per Gaza partita da Marzabotto. Le solite parole di "piombo": «Siamo di fronte a una situazione senza precedenti, cioè allo sdoganamento della guerra come strumento di relazione tra Stati e nazioni, che sta sostituendo la diplomazia e la politica». Il giorno prima, sabato, il segretario della Cgil dal palco del festival delle idee organizzato a Bologna da Repubblica, discettava del necessario cambiamento della legge elettorale.

 

 

Non c’è un tema dell’agenda politica in cui il prode Landini non si eserciti con il suo commento. «Ho sempre vissuto l’esperienza sindacale non come un lavoro, ma quasi come una missione», ha spiegato recentemente, usando toni agiografici. Una missione che a tempo debito può anche prevedere il "sacrificio" di guidare il campo largo contro Giorgia Meloni. Ovvero, passare dalla fase virtuale (il segretario della Cgil è già il principale ispiratore della linea politica) a quella più diretta. Un leader tutto d’un pezzo, senza le "stravaganze" di Elly e la scarsa affidabilità di Giuseppi. La segretaria del Pd poi potrebbe mettersi fuori gioco da sola; il Nazareno rischia di passare i prossimi (decisivi) mesi in una battaglia campale per liberarsi della minoranza. Con un esito scontato certo, ma con un tasso di polemiche che potrebbe indebolirla. Lui invece è un "monarca" incontrastato, piace ai "grandi" elettori della gauche, ai direttori dei quotidiani di sinistra e ai militanti, grazie alla sua asprezza da vero e proprio condottiero, quello che non guarda in faccia nessuno. Anche il calendario gli sorride: tra l’estate e l’autunno del prossimo anno scade il suo mandato in Corso Italia. Potrebbe rimanere a spasso per poche ore, se il campo largo avesse bisogno di un federatore.

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