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Ue, l'anno del voto per decidere se avere un ruolo o scomparire

Pietro De Leo
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Arriva un momento in cui la Storia, intesa come concatenazione di eventi decisivi per la sopravvivenza, ti chiede il conto. E il 2024 sarà il Grande Esame per l’Europa. Quello in cui l’Unione deciderà il proprio «o dentro o fuori», il passo vitale per provare ad essere quello che non è stata finora, ovvero un soggetto politico in grado di decidere, incidere, orientare. Fino a questo istante, infatti, l’Ue è stato il sottoprodotto della grande illusione generata dalla caduta del Muro di Berlino. Un’allucinazione collettiva da «fine della Storia» (leggere bene il libro-guida di allora, scritto dallo studioso americano Francis Fukuyama), in cui pareva che bastasse l’integrazione economica per muovere il mondo. E questa integrazione è stata rappresentata, in maniera tangibile, dalla moneta unica. Un miraggio, appunto, considerando che non crea soggettività senza una Costituzione, ancor più considerando le differenze culturali tra Paesi anseatici e Paesi Mediterranei, cui nel 2004 si è aggiunta l’ulteriore differenza con l’allargamento ad Est di Paesi usciti dal comunismo soltanto da tre lustri. Far convivere tre blocchi è possibile soltanto se si hanno due pilastri: valori comuni possibilmente codificati - da cui farsi orientare, e che non siano mera retorica. Leadership politiche forti. L’Europa non ha avuto i primi, sulle seconde ha potuto contare solo in maniera intermittente e comunque mai a livello centrale (non esiste certo un’epica delle gesta di Jean Claude Junker o, per guardare all’oggi, di Ursula von der Leyen).

 

 

La conseguenza di tutto questo è stata, dunque, una ragione di esistenza basata più sulla norma che sulla politica. Le procedure d’infrazione spesso attivate sulla base di cavilli, le norme cervellotiche del Patto di Stabilità (non riformato nei suoi parametri di fondo neanche dopo il triennio devastante che si è appena chiuso, tra Covid e inflazione), l’ossessione green che, su spinta culturale dei Paesi del Nord, se fosse stata pienamente tradotta in norme avrebbe rappresentato una zavorra per alcuni settori produttivi qui e là per l’Europa (leggi automotive) così come per la proprietà immobiliare (capitolo case green). Di converso, però, quel che manca è la prospettiva politica. Alla chiamata dei grandi rivolgimenti politici l’Ue è stata assente ed evanescente. La guerra in Ucraina, scoppiata nel proprio spazio fisico, per quasi due anni non ha visto una credibile attività negoziale che fosse scaturita da Bruxelles. Prefigurando, peraltro, un paradosso: per lungo tempo l’opera di trattativa è stata svolta da Erdogan, un dittatore islamico che ha in mano le sorti della Pace sul territorio dell’Europa laica, culla della democrazia. Nell’ambito della crisi medio orientale, la dinamica diplomatica si riassume soprattutto nell’interlocuzione tra il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il premier israeliano Bibi Netanyahu. Da Bruxelles, peraltro, più di una volta è arrivato il triste spettacolo di un disallineamento tra Commissione e Consiglio. Proprio questo, peraltro, è stato uno dei punti critici di questo quinquennio. Il dualismo tra Ursula Von der Leyen (presidente dell’Esecutivo europeo) e Charles Michel (numero uno dell’organismo che riunisce i Capi di Stato di governo) ha fornito il quadro desolante di un’Europa divisa nel suo cuore di governo. Non esattamente il miglior deterrente politico per quelle potenze avversarie che scommettono su un’Europa divisa, innanzitutto a livello istituzionale e di dialettica negli Stati nazionali, poi di opinioni pubbliche. La Cina, la Russia (le cui attività di influenza politica e di investimento economico sono molto ferventi, per esempio, in Ungheria). E ancora l’Iran e le centrali del fondamentalismo islamico, purtroppo tornato ad una nuova fase di attivismo.

 

 

Non si affrontano le sfide senza la politica. Una su tutte, quella dell’immigrazione clandestina, che ha visto un primo risultato con l’accordo raggiunto di recente (che mette in secondo piano lo schema di redistribuzione tra Paesi membri mai entrato a regime) ma che necessiterà di un’importante opera di cooperazione con i Paesi di partenza come su quelli terzi. E poi c’è la sfida dell’allargamento: l’ipotesi dell’ingresso dell’Ucraina così come dei Paesi balcanici è ormai un percorso obbligato. Per capire il motivo basti considerare l’attivismo della Russia in Serbia, dove Gazprom e Sberbank sostengono gruppi economici, religiosi e culturali favorevoli all’ultranazionalismo serbo e filo russo. Oltre ai legami nell’ambito del commercio militare, con vendita di droni, missili anticarro, difese antiaeree da parte di Mosca. Tuttavia, la solidità democratica, nei Balcani come in Ucraina presenta delle differenze rispetto al costrutto europeo. Infine, la sfida americana. La polarizzazione della società americana, man mano che le elezioni per la Casa Bianca si avvicineranno, potrebbero portare ad un disimpegno degli Stati Uniti in vari scenari (il più immediato pare quello della fornitura degli aiuti a Kiev) con il rischio di «effetto Afghanistan». Una Ue avvitata su infiniti derby interni sarebbe travolta dai fatti. La costruzione della prossima maggioranza in seno all’Europarlamento e la designazione successiva dell’Esecutivo comunitario dovrà tener conto di tutto questo quando tutti i Paesi della Ue andranno al voto il prossimo giugno.

 

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