Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Napolitano e Berlusconi, quello del 2011 fu un vero golpe. Perché Casini sbaglia

Riccardo Mazzoni
  • a
  • a
  • a

Sulla caduta del governo Berlusconi del 2011 c’è ormai una vera e propria letteratura fatta di ricostruzioni opposte fra chi sostiene che in quell’autunno Napolitano mise in atto un golpe divelluto e chi invece è convinto che nominando Monti il Quirinale salvò l’Italia dal default. Opinioni entrambe legittime, ma è inaccettabile che ora, morti Berlusconi e Napolitano, si affermi, come ha fatto Pierferdinando Casini in un’intervista a La Stampa, che il Cavaliere era addirittura «sollevato» per essere stato costretto a dimettersi. E la prova starebbe nel fatto che Berlusconi avrebbe poi sostenuto il governo Monti e poi la rielezione di Napolitano. Ma in entrambi i casi la motivazione va ricercata nel senso di responsabilità nazionale a cui il presidente di Forza Italia non è mai venuto meno nella sua trentennale carriera politica.

Berlusconi in realtà ha sempre sostenuto che nel 2011 ci fu una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo Paese e contrastava quelli della Germania, ed era convinto che allora si verificò un vero e proprio attacco alla sovranità nazionale italiana. Del resto, ci sono molte autorevoli testimonianze a confermarlo: il ministro del Tesoro di Obama, Timothy Geithner, scrisse ad esempio che in quell’autunno aveva ricevuto pressioni da alte personalità europee perché convincesse il presidente americano ad aderire a «un complotto». Lo chiamò proprio così, nelle sue memorie uscite nel maggio 2014: complotto. A quella proposta rispose: «We can’t have his blood on our hands», noi non vogliamo sporcarci le mani con il suo sangue. «E quel sangue – notò Berlusconi - era il mio».

 

La ricostruzione del Cavaliere è sempre stata molto precisa sul punto: si era opposto in ogni modo alla politica di austerità che Merkel e Sarkozy volevano imporre all’Italia, al punto di volerla far commissariare dal Fondo monetario internazionale. «Non intendevo - anche se lasciato solo dal Capo dello Stato - rinunciare alla nostra sovranità, per rispetto alla nostra gente e per ragioni di dignità nazionale. Fui costretto però, pochi giorni dopo il G20 di Cannes, dove ai primi di novembre ero stato sottoposto a pressioni tremende, a dimettermi. Lo feci perché preferii ritirarmi piuttosto che danneggiare irreparabilmente l’Italia, che era tenuta sotto tiro con la pistola dello spread.

Un’arma costruita a freddo per consentire a potenze esterne e interne, extra democratiche, di prendere il timone della nave». Più chiaro di così... Del resto, anche l’ex premier spagnolo Zapatero, nel suo libro «Il Dilemma», raccontò che Monti era stato di fatto nominato premier durante il G20 di Cannes da Merkel, Sarkozy, oltre che dai burocrati di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale.

Berlusconi era convinto di aver subito due golpe: il primo nel ’94, quando Scalfaro comunicò a Bossi che il premier in carica da pochi mesi «era nel burrone» e che i giudici di Milano lo avrebbero sicuramente condannato per l’avviso di garanzia ricevuto al G8 di Napoli, e che quindi doveva rompere l’alleanza di centrodestra «per non finirci dentro anche lui». Questa la vera genesi del «ribaltone» che portò la Lega a uscire dal governo e a sostenere l'esecutivo tecnico di Lamberto Dini. Il Cavaliere non se ne fece giustamente una ragione. E diede la colpa a Scalfaro di essere artefice di «un imbroglio», di una «sopraffazione inaccettabile», di un «colpo di Stato». Accuse che lo fecero finire sotto inchiesta per vilipendio al presidente della Repubblica. L’inchiesta fu archiviata. Ma Berlusconi non ha mai archiviato le sue accuse. Tant’è che molti anni dopo mise in atto quella che i retroscenisti descrissero come la sua vendetta: il no all’elezione bipartisan di Scalfaro alla presidenza del Senato, nel 2006.

 

Napolitano è stato più abile e diplomatico di Scalfaro, ma a Berlusconi non fece mai sconti: il 6 febbraio del 2009 rifiutò di firmare il decreto Eluana, varato dal governo per bloccare la sentenza che dava la possibilità a Beppino Englaro di lasciar morire sua figlia togliendole l’alimentazione artificiale. Il premier replicò con fermezza: «Senza la possibilità di ricorrere ai decreti legge tornerei dal popolo e chiederei di cambiare la Costituzione». Il 7 ottobre Berlusconi attaccò il Quirinale dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale. Di Napolitano disse: «Sapete tutti da che parte sta». Il 10 dicembre sferrò un duplice attacco alla Consulta e a Napolitano parlando a Bonn al congresso del Ppe.

«La Consulta – disse – non è più un organo di garanzia, ma un organo politico». E aggiunse: «Abbiamo avuto tre presidenti della Repubblica di sinistra». Napolitano rispose con un comunicato ufficiale: «È un violento attacco alle istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione italiana». Ma era la verità. Il 31 marzo del 2010, poi, il Quirinale rinviò alle Camere il ddl sul lavoro, che secondo l’opposizione consentiva di aggirare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti. Napolitano espresse le sue «serie perplessità». Non solo: mentre infuriava la polemica sulla casa di Montecarlo, Napolitano difese Fini dagli attacchi che venivano dalla maggioranza e dalla «stampa berlusconiana»: il Capo dello Stato chiese di mettere fine alla «campagna altamente destabilizzante» volta a delegittimare il presidente della Camera. Mai una parola, invece, quando le campagne destabilizzanti riguardarono Berlusconi. Ma fu nell'autunno del 2011, appunto, che Napolitano gettò la maschera: Berlusconi governava da tre anni, dopo aver stravinto le elezioni del 2008 e trionfato alle regionali del 2010. Fu il Quirinale a farlo cadere, a decidere di non far votare gli italiani sotto la neve, a dare vita al progetto di Monti, in stretta osservanza e con i diktat delle tecnocrazie europee. Già in estate Napolitano aveva pensato al professore della Bocconi come successore a Palazzo Chigi, circostanza confermata dallo stesso Monti. Le testimonianze fornite da Alan Friedman non lasciano margine a interpretazioni diverse o minimaliste. E non era certo rispettoso della Costituzione e del voto degli italiani preordinare un governo che avrebbe stravolto il responso delle urne, quando la bufera dello spread doveva ancora abbattersi sull’Italia. 

Dai blog