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Le Monde su Meloni, Pera assicura: “Stato forte, ecco perché piace Giorgia”

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L’endorsement di Le Monde alle norme contenute nel Dl Caivano non è passato inosservato soprattutto perché il quotidiano francese non è mai stato tenero con i governi italiani, in particolar modo con quelli presieduti dal governo Berlusconi. Il Tempo ha intervistato il senatore Marcello Pera, presidente del Senato nel governo Berlusconi II e III, testimone degli "antichi screzi" tra l’Eliseo e Palazzo Chigi.

Senatore cosa ne pensa dell’apprezzamento di Le Monde ("Fa sentire la presenza dello Stato") al governo Meloni per la recente approvazione di alcune norme sulle periferie contenute nel Dl Caivano?
«Finalmente, equo e realistico. Equo, perché coglie il senso del provvedimento, che consiste nel ristabilire la presenza dello Stato là dove è carente, e impedisce la nascita e la diffusione di zone senza legge. Realistico, perché Le Monde prende e rende atto che Meloni ha assunto una statura europea che non può esserle negata. Non si presenta col cappello in mano, ma neppure batte i pugni sul tavolo. Semplicemente, oppone ragioni obiettive (si pensi anche al caso dell’immigrazione clandestina) e politiche con argomenti concreti (e qui penso ai parametri finanziari della stabilità). Insomma, le Monde non arriccia il naso, frequente tic francese nei nostri riguardi, e ci rispetta da pari a pari. Dopotutto, hanno gli stessi nostri problemi: anche loro hanno le banlieu dietro l’angolo di casa. Non mi illudo che sarà sempre così, ma oggi lo è».

 



È possibile che i media francesi si siano resi conto che per risolvere il problema del degrado nelle periferie, con cui la Francia fa i conti da tempo (penso alle periodiche rivolte nelle banlieue), sono necessarie risposte forti da parte dello Stato?
«È senz’altro così, specialmente per i francesi che amano uno Stato centrale forte che dà anche direttive etiche (si pensi al caso del velo alle donne islamiche). Come noi, sanno che cosa significa il degrado, e anche più di noi conoscono il fenomeno della ghettizzazione. Come in tutta Europa, sono alle prese con le difficoltà dell’integrazione e assimilazione. E fanno fatica come tutti, perché questi processi richiedono tempi lunghi, educazione, investimenti, scuola, politiche attive. A me piacerebbe chiedergli se non comincino a pensare che la loro “laicità” non sia ormai un ostacolo, che la proliferazione incontrollata dei diritti di individui e singoli, invece di unire disgrega, che i valori, se non sono nutriti da una cornice unitaria di fede, diventano capricci e prepotenza. La “dea Ragione” mostra qualche ruga? Siccome l’appetito mi vien mangiando, mi fermo qui, al momento soddisfatto».

Più in generale a lei sono piaciute le norme contenute nel Dl Caivano?
«Sono necessarie. E che da sé sole non bastino è evidente, non dovrebbe essere materia di contesa politica, come si fa quando dall’opposizione si dice che la prevenzione è meglio della repressione. È evidente e banale. Perché quando il degrado tocca il costume, solo un nuovo costume può porci riparo. Il diritto penale non sostituisce l’educazione. Il magistrato non può fare le veci del genitore. La scuola non può sostituirsi alla famiglia. Lo Stato non è un imprenditore sociale o un benefattore. Mi riconosco in ciò che dice don Patriciello, finalmente un sacerdote in prima linea che rifugge dai toni apocalittici e non si atteggia a guerriero. Occorrono consapevolezza della crisi sociale, fermezza del senso dello Stato, e idee chiare. Il Governo va in questa direzione».

 

 

Un endorsement insolito, quello di Le Monde, per un giornale che non ha mai lesinato critiche ai governi italiani di centrodestra in particolare quelli presieduti da Silvio Berlusconi. Ricordo in particolare due articoli, uno del 4 agosto 2015 (dal titolo “Quando Berlusconi viene a patti con la piovra”) e uno del 10 luglio 2017 (“Quando B. trattava con Cosanostra”) per cui dovettero “ritrattare” e chiedere scusa. Secondo lei come si spiegavano all’epoca questi attacchi?
«Si spiegavano allora, e si spiegano adesso, col fatto che l’Europa non è il giardino di Boboli con le sue meraviglie. È terra di aspre contese, dove i governi hanno interessi divergenti e ben scarso spirito unitario, desiderano supremazie, al di là della retorica delle cerimonie ufficiali, vogliono imporre la loro forza. E anche dare lezioni. Talvolta però l’esito è comico: Berlusconi passa alla storia, Sarkozy è ancora alle prese con i magistrati».

Lei che è stato uno dei protagonisti di quegli anni ricorda qualche episodio in particolare che rese complicati i rapporti tra Italia e Francia?
«Oh, sì. Ero in visita ufficiale. Inaugurai una Mostra di Raffaello. Ero buon amico del presidente del Senato. E partecipai anche ad una conferenza di una associazione culturale organizzata per me. Fui contestato, non tanto per ciò che dicevo, che pure faceva scandalo dacché parlai dell’Europa cristiana, ma perché rappresentavo l’Italia di Berlusconi, l’orco, il mafioso, il corrotto. Se ora a Giorgia Meloni non danno dell’autoritaria fascista è un gran progresso che va a suo merito. Vive la France, e alla prossima!».

 

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