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Salario minimo, il Cnel smonta la battaglia delle opposizioni

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Il tempo dell’«ubriacatura» delle opposizioni per la presentazione della proposta di legge sul salario minimo è durato appena una settimana. Sono infatti bastati solo sette giorni al Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) per individuare una sfilza di criticità sulla ipotesi di riforma avanzata da Giuseppe Conte, Elly Schlein e soci. È lo scorso 4 luglio quando alla Camera viene presentato l’atto 1275 in merito alle «disposizioni per l’istituzione del salario minimo», poi l’11 dello stesso mese nella commissione Lavoro pubblico e privato di Montecitorio viene audito informalmente il presidente del Cnel, proprio sulla soluzione individuata dalla sinistra per il superamento del «lavoro povero». Nella memoria redatta al termine dell’incontro in commissione si legge: «La questione salariale in Italia non può essere limitata a un’alternativa sull’opportunità o meno di introdurre un salario minimo per legge, senza affrontare, a monte, i principali problemi che ostacolano la crescita dei salari dei lavoratori, tra cui - si legge nel documento- i conclamati ritardi nei rinnovi contrattuali aggravati dalla crescita esponenziale del costo della vita e dall’elevato cuneo fiscale, dall’impatto della precarietà, del part-time involontario e del "lavoro povero"». Secondo i membri di Villa Lubin «nelle proposte di legge manca invece il riferimento a possibili soluzioni in grado di affrontare il problema dei bassi salari dal lato della riforma fiscale e da quello della contrattazione ai vari livelli». Quindi l’idea delle opposizioni non sembra così efficace per affrontare il problema del lavoro.

 

 

 

Viene da chiedersi se con l’introduzione dei nove euro lordi l’ora le condizioni dei lavoratori italiani cambierebbero. La risposta data dal Cnel, ben prima che il presidente del Consiglio Giorgia Meloni gli affidasse il compito di fornire una proposta ad hoc, è quasi senza appello: «(...) I livelli retributivi minimi non sono fissati in modo uniforme, e che in una eventuale definizione legale della retribuzione non sarebbe possibile fissare una misura standard, non differenziata per settore e qualifica». A tal proposito anche l’ex consigliere del Cnel Claudio Lucifora ha pochi dubbi: «Il salario minimo è complementare alla contrattazione colletiva (nell’Ue solo sei Stati, Italia compresa, si affidano esclusivamente a questo meccanismo, ndr), così come avviene in tutti i Paesi d’Europa dove è stato introdotto. Una misura che deve essere un supporto soprattutto per quei settori dove il sistema della Ccnl non c’è o è debole. Penso per esempio - prosegue Lucifora- all’agricoltura, al commercio e alla logistica. Proprio su quest’ultimo settore il Cnel, insieme all’Inps, ha fatto numerosi studi che hanno mostrato come le retribuzioni corrisposte molto spesso sono più basse del contratto rappresentativo di Cgil, Cisl e Uil». Sulla complessa partita del salario minimo è inevitabile che un’importante voce in capitolo l’abbiano i principali sindacati del Paese. «I quali- prosegue Lucifora - si sono sempre dichiarati contrari. Adesso la Cgil sembra un po’ più aperta all’idea, almeno a parole. La Cisl invece continua a essere contraria. Una posizione, non giustificata in base ai nostri approfondimenti, che condividono con una buona fetta di datori di lavoro. A loro giudizio l’introduzione del salario minimo toglierebbe spazio alla funzione principale del sindacato: la contrattazione. E poi una volta regolarizzato il salario minimo le imprese uscirebbero dai contratti per pagare salari più bassi». Su uno tra i temi più dibattuti dalla politica proprio il Cnel dovrà esprimersi, «con una proposta concreta», entro la fine di ottobre, eppure ci sentiamo già di escludere che prenderà in considerazione quanto proposto dalle opposizioni.

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