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La riforma della giustizia rischia già il binario morto

Riccardo Mazzoni
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Carlo Nordio sembra determinato a portare avanti la riforma della giustizia seguendo alla lettera il programma di governo, anche se ha deciso di procedere gradualmente, presentando un pacchetto di norme che è solo l’inizio di un percorso che dovrà incidere molto più in profondità sul nostro sistema giudiziario. Il testo si limita infatti a cancellare il reato di abuso d’ufficio, a stringere le maglie sulle intercettazioni, a frenare sull’applicazione delle misure cautelari, e interviene sulla materia controversa del traffico di influenze. Ma è bastato questo timido approccio garantista per scatenare l’inferno, tanto che la premier è stata costretta ad assicurare che il governo è pronto a modificare il disegno di legge in Parlamento. Si può già parlare, dunque, di una falsa partenza, perché allo scontato no pregiudiziale di opposizione ed Anm si sono aggiunti anche i mugugni di una parte della maggioranza che ha preso apertamente le distanze dal Guardasigilli, finito sotto accusa per le sue esternazioni da giurista più che da ministro.

 

 

I casi Delmastro e Santanchè, oltre alla vicenda che coinvolge il figlio di La Russa, hanno poi versato altra benzina sul fuoco, e in questo clima si annuncia in Parlamento uno scontro tutto ideologico, secondo le peggiori tradizioni delle passate legislature. Bisogna dirlo chiaro: questa riforma dovrebbe essere difesa da tutto il centrodestra, per mantenere un impegno solenne preso con gli elettori, ma la sensazione è che Nordio sia invece vissuto quasi come un corpo estraneo, tanto che sembra già politicamente ridotto a un San Sebastiano trafitto dalle lance (un ex pm gli ha dato perfino dell’incompetente) e, presto, a un’anatra zoppa. Di questo passo, però, il centrodestra rischia l’ennesimo fallimento sulla giustizia, e i segnali ci sono purtroppo tutti: l’intervento felpato del Quirinale, che prima ha convocato i vertici della magistratura e poi la premier, aveva lo scopo di mettere la sordina alle polemiche, ma la sua moral suasion è servito anche a far riscrivere la riforma, con la segnalazione di alcune criticità che cozzano con trattati internazionali di rilevanza costituzionale, in particolare sull’abolizione dell’abuso di ufficio e del traffico di influenze. Eppure si tratta di due reati sui quali si discute da anni per la loro indeterminatezza che lascia campo libero alle incursioni giudiziarie, e non a caso i sindaci di ogni colore politico sono favorevoli alla cancellazione.

 

 

Questa fortissima corrente antiriformista si ammanta di buoni e condivisibili propositi: riportare il confronto della giustizia entro gli argini della correttezza istituzionale; eliminare le contrapposizioni che intossicano i rapporti tra poteri dello Stato per non catapultare di nuovo l’Italia in una stagione di conflitto permanente con le toghe come ai tempi di Berlusconi; evitare nuovi conflitti con l’Europa. Già, ma se l’Ue va seguita quando sostiene che abolire l’abuso d’ufficio favorisce la corruzione, allo stesso modo andrebbe ascoltata sul concorso esterno in associazione mafiosa: la Corte europea dei diritti dell’uomo, intervenendo sul caso Contrada, ha stabilito infatti che «il reato non era sufficientemente chiaro né prevedibile», ribadendo così che la legge deve essere sempre tassativa. Invece è bastata una riflessione tecnico-giuridica di Nordio sull’evanescenza di questo reato per far insorgere i professionisti dell’antimafia. E a nulla è valso il riferimento alla Commissione per la riforma del codice penale, composta da magistrati, accademici e avvocati, unanimi nella conclusione che il concorso esterno vada tipicizzato con una norma ad hoc, per superare l’attuale incertezza applicativa. Speriamo di sbagliare, dunque, ma l’aria che si respira è da indietro tutta: emblematico in questo senso il fatto che Forza Italia abbia vietato commenti e polemiche contro la procura di Firenze per l’inchiesta sulle stragi di mafia del ’93. E che la grancassa giustizialista abbia ripreso vigore, rispolverando la leggenda secondo cui la riforma sarebbe copiata da Licio Gelli, e denunciando le «menzogne politiche sulla magistratura». Insomma: del monito di Mattarella dopo lo scandalo Palamara (si rischiano – disse - «conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario») non è rimasta traccia. La colpa è sempre e soltanto della politica. Che continua a farsi del male.

 

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