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Rabbia degli ex fedelissimi di Di Maio: “Traditi dopo il patto con Draghi”

Claudio Querques
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Neanche un tweet. Chessò una battuta, un augurio per la sua «nuova vita» o un riferimento agli sceicchi che ora dovrà incontrare in qualità di inviato Ue, qualcuno che pubblicamente gli abbia scritto sui social «complimenti Luigi». Altro che Golfo Persico: intorno a Giggino, il vuoto pneumatico, il deserto dei Tartari. Passi per quelli che non lo hanno mai amato, per i falsi amici che segretamente lo hanno osteggiato. Per chi nei giorni belli lo tampinava con le richieste più assurde. Ma tanta ingratitudine e indifferenza da chi grazie a lui è diventato ministro, vice-ministro, sottosegretario, presidente di Commissione, deputato o senatore Di Maio proprio non se l’aspettava. Anzi. Chi dopo il tonfo elettorale, la catastrofe perfetta, il dissolvimento di quella sgangherata lista che risponde al nome di «Impegno Civico» si era sentito tradito ora raddoppia i sospetti. Sussurri e grida che non hanno un nome e un cognome perché chi parla «vuole essere dimenticato». «Di Maio blindato?»; «C’era un patto non scritto», si chiedono. Insinuazioni che non arrivano dai «soliti leghisti». O dal suo successore Antonio Tajani, contrariato per la scelta di Borrell. Ma dai suoi amici di ieri, quelli che lui, sciogliendo Impegno Civico un minuto dopo la disfatta, ha lasciato orfani di se stesso e del progetto politico che in campagna elettorale aveva magnificato. Gli ex 5Stelle che lo hanno seguito nel suo percorso di autodistruzione assistono ora alla rinascita di Giggino. E non possono non farsi qualche domanda.

 

 

Che il suo principale sponsor sia stato l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi è un fatto acclarato. Così come è risaputo che l’ex ministro degli Esteri si era speso per candidare a sua volta l’ex presidente della Bce al Quirinale prima che il tentativo fallisse e prendesse corpo il ritorno al Colle di Mattarella. Il rapporto Draghi-Di Maio si rafforza proprio in quei giorni. Una reciproca stima sfociata poi nell’addio di quest’ultimo ai 5Stelle e nella rottura con Giuseppe Conte dopo 10 anni di leadership (e la famosa telefonata con Grillo). La candidatura di Luigi Di Maio al ruolo di inviato Ue nel Golfo Persico – funzione che ha delicatissime implicazioni economiche e geopolitiche - si rafforza nel mese di luglio quando Draghi si fa garante e si spende personalmente per sostenere il suo ministro, «l’uomo al posto giusto». In pista ci sono anche il cipriota Markos Kiprianou, ex inviato Onu in Libia, lo slovacco Jan Kubis e l’ex ministro degli Esteri greco e commissario europeo all’Immigrazione Dimitris Avraopoulosoulos. Figure di primo piano. Ma Giggino, all’epoca solidamente stabilizzato alla Farnesina, spinto da cotanto sponsor, è in pole position. Nove mesi dopo lo scenario è cambiato.

 

 

A Palazzo Chigi non c’è più Mario Draghi ma Giorgia Meloni. Che il prescelto sia un italiano è comunque motivo di orgoglio. Sullo sfondo restano le domande. E una su tutte: perché Bruxelles manda a trattare con gli Emirati un suo emissario sgradito a Roma? Le chat ex grilline emanano un senso di rivalsa e di espiazione. Sugli altri social tutto tace. Ma gli orfani di Di Maio sono sempre in contatto - Azzolina, Vacca, Mesci, Di Stefano, Sileri, Castelli - anche se lui ormai è sparito da tempo. Il suo ultimo messaggio risale all’ottobre scorso. Non ha risposto agli auguri di Buona Pasqua. L’unico a spendere una parola buona per lui è Bruno Tabacci: «Quelle critiche a Di Maio non fanno onore al Paese per quanto sono pretestuose e provinciali: è l'unico italiano – continua il presidente di Centro democratico - in una rosa di ex ministri degli Esteri di diversi Paesi europei candidati a quel ruolo e l'indicazione spetta allo stesso Borrell che evidentemente lo ha ritenuto il più adatto all'incarico». E il «patto» con Draghi? «Non ho nulla da aggiungere, quello che avevo da dire l’ho già inviato alle agenzie».

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