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La sinistra agita lo spettro del fascismo. Giorgia Meloni paragonata a Mussolini

Pietro De Leo
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Altro che «agenda Draghi»! Il core business elettorale della sinistra, dal Pd ai suoi sodali nella cultura o nel giornalismo è il «Fattore "M". "M" come Meloni. Ma "M" come Mussolini». Già, ha scritto proprio così Repubblica in una pagina dal titolo «Il passato che non passa. Quell’ombra nera mai fugata da Meloni».

Un pezzone che, come incipit, ricorda una commemorazione di Acca Larentia del 2008 in cui Giorgia Meloni si trovò fianco a fianco con Giuliano Castellino, oggi prima fila di Forza Nuova accusato per l’assedio alla Cgil dell’ottobre scorso. 2008, una vita fa. Ma secondo Rep, appunto è «un passato che non passa». Perché evidentemente da quelle parti hanno il potere sul calendario e tre lustri son niente. E il moralismo censorio è talmente intenso da colpevolizzare anche la prima lettera del cognome. «M», comunanza con la Buon’anima. Chissà se, a questo punto, sarà attenzionato anche il povero Mattarella. La reazione della leader di FdI non si è fatta attendere: «Con la campagna elettorale è ripartita, puntuale come sempre, la macchina del fango contro me e Fratelli d’Italia. Aspettatevi di tutto in queste settimane, perché sono consapevoli dell’imminente sconfitta e useranno ogni mezzo per tentare di fermarci».

 

Per rimanere in tema, ancora ieri sempre su Repubblica compariva un’intervista al politologo francese Marc Lazar: «Meloni non ripudia il fascismo -dice- e rimane ambigua». Cosa debba ripudiare una che è nata nel ’77, a fascismo bello che sepolto, e maturata negli anni ’90, quando anche il neofascismo s’andava consegnando alla storia, è sempre il nodo della questione. E come se non bastasse, sempre lo stesso giornale, sabato, in prima pagina sollevava l’«Allarme Usa su Meloni».

 

E in cosa si traduce questo enorme, gravissimo avviso? In un pezzo del New York Times, giornale liberal americano, che prevede un «futuro desolante» per l’Italia; in un altro articolo pubblicato sullo spazio web GZero di Ian Bremmer (altro commentatore liberal) e infine in un’analisi comparsa sul magazine di relazioni internazionali Foreign Policy. Testi certamente critici, dubbiosi (l’articolo su GZero, peraltro, non è così spaventevole come pare intendere Rep) o carichi di pregiudizi, certo, ma normale amministrazione. Almeno, Repubblica si premura di scrivere che al Dipartimento di Stato di Washington «hanno notato l’atlantismo di Meloni». Insomma, nessun timore alla Casa Bianca per l’eventualità che vinca un centrodestra guidato da Fratelli d’Italia. Ma molto, non nuovo, subbuglio sui giornali. Al novero si aggiungono altre testate. Dalla Gran Bretagna, l’Observer definisce «neofascista» Fratelli d’Italia. Dalla Germania, il Tagesspiegel proietta in lei la «speranza dei fascisti», mentre il Suddeutsche Zeitung prefigura una nuova marcia su Roma.

Per quanto desolante, è un copione già visto. Prima con Berlusconi (che l’Economist, nel 2001, definì «Unfit to lead Italy», ossia incapace di guidare l’Italia). E poi con Salvini, a cui la stampa straniera disse di tutti i colori (sempre l’Economist lo bollò come «istintivamente autoritario», l’Irish Independent parlò di lui come del «ministro italiano della paura e del neofascismo»).

 

Ieri Ignazio La Russa, senatore di Fratelli d’Italia, provava a dare una lettura in chiave nostrana al fenomeno, parlando a In Mezz’Ora in più, su Rai3. «Dietro gli attacchi dei giornali stranieri a Giorgia Meloni ci sono ambienti italianissimi». E aggiungeva: «Politicamente abbiamo precisi elementi per dire che abbiamo ambienti italiani della cultura, del giornalismo, della politica che stanno lavorando in combutta con ambienti della sinistra internazionale». Come può funzionare, peraltro, questo ingranaggio lo spiegò, tanti anni fa, il libro «L’Europa di carta», di Giancarlo Salemi, che coniò un’espressione, «legge dell’ascensore». Funziona così: i giornali stranieri si fanno condizionare dalla linea di quelli italiani, che a loro volta riprendono ed enfatizzano. E la politica amplifica e ne fa un caso, in una tensione tutta italiana tale per cui quel che dicono di noi all’estero è questione di vita o di morte (negli altri Paesi la vita scorre placida e tranquilla a prescindere da ciò che scriviamo in Italia di loro). E questo giro ha, come vittima, il leader del maggior partito di centrodestra di turno. Quantomeno il Domani, ancora ieri, si premurava di metterla al plurale, in ottica di coalizione: «Arrivano le destre: addio diritti civili». Tutti segregati e perseguitati insomma, come nella Cina di Xi.

 

Tralasciando la fanfara giornalistica, c’è poi il bailamme politico. Con Fratoianni che parla di «destra post fascista di Meloni» e «la destra xenofoba di Salvini». Se questi sono i primi giorni di partita, figuriamoci quel che sarà nelle prossime settimane. D’altronde, il dagli al nemico (e possibilmente anche al suo elettorato) è sempre stato il bottone rosso d’emergenza per una sinistra litigiosa e spaccata. Soprattutto in questa tornata elettorale così improvvisa, in cui ancora non si è capito da chi sarà composta la coalizione a trazione Pd.

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