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Giuseppe Conte vuole rifare la sinistra arcobaleno

Luigi Bisignani
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Caro direttore, perfino Conte, tra inutili «disagi politici» e bizzarre richieste di «discontinuità», sta pensando al suo campo largo con il rischio, però, che diventi un campo morto. Il progetto che Giuseppi sta portando avanti, nonostante i continui smottamenti nel Movimento 5 Stelle e il timore di un Big Bang nel prossimo voto di fiducia al Senato, è alle fasi iniziali. Sono in corso, infatti, riunioni riservate con lo scopo di contrastare innanzitutto l’iniziativa «green» della nuova coppia dell’estate Di Maio-Sala, a cui si dovrebbe aggiungere l’ex fatina Virginia Raggi.

Questi incontri, benedetti da personaggi del peso di Massimo D’Alema, Goffredo Bettini e Pier Luigi Bersani, puntano a mettere attorno a un tavolo i Verdi di Bonelli, Sinistra Italiana di Fratoianni, Articolo 1 di Speranza e quel che resta dell’Italia dei Valori: una compagnia variopinta per un rampante ex avvocato d’affari. Obiettivo: costituire una federazione di partiti con a capo l’ex premier, sperando di presentarsi alle prossime politiche al fianco del Pd. Praticamente un’alternativa di sinistra sul modello francese Nupes - Nouvelle Union populaire écologique et sociale - di Mélenchon.

Conte però ragiona da avvocato, ovvero una cosa alla volta, mentre tutto attorno balla e, soprattutto, non vuole una crisi ad agosto in «stile Papeete». Tuttavia, o agisce adesso o il pericolo è di finire travolto. La riorganizzazione interna del suo partito sta procedendo troppo lentamente e senza il supporto del capogruppo alla Camera Davide Crippa, legato a Grillo, che sembra lo ostacoli apposta passando il suo tempo più a parlare con i giornalisti che a mantenere coeso il gruppo. Un gruppo che, in poche ore, ha perso 51 deputati, senza che Conte se ne sia assunto alcuna responsabilità ma soprattutto che, a differenza del Pd, non ha giovani leve. Tra l’altro, non coinvolge in alcun modo nella vita di partito quei pochi che ruotano attorno alla sua figura, essendo bloccati dall’esuberanza del solito Rocco Casalino, tutto eccitato perché convinto di entrare nel futuro Parlamento trovando così, anche lui, un po’ di serenità economica. Ed è forse per questo che, scherzosamente, «Giuseppi» è diventato tra gli intimi, il «Conte Max», a ricordo di uno straordinario Sordi, figlio di un tranviere, in cerca di nobiltà nei salotti «buoni» romani, così come ci sta provando oggi il leader dei pentastellati in Banca d’Italia, Vaticano e Quirinale, dove però il favorito dal Richelieu Zampetti resta sempre Luigi Di Maio.

 

 

 

 

 

I più sconsolati, al sentir parlare del «Conte Max», allargano le braccia, rassegnati a una stagione di inutili penultimatum e di molto rumore per nulla. Stefano Patuanelli continua ad appoggiarlo incondizionatamente, pur chiedendo e ottenendo un collegio al Sud; Federico D’Incà, invece, non avendo ricevuto la medesima rassicurazione, gioca una partita in proprio, sperando in un collegio uninominale in alleanza con il Pd.

Gli altri sono tutti alla ricerca di un futuro per non tornare a essere, come molti di loro erano prima dell’avventura in politica, dei disoccupati. Per questo nessuno di loro prende mai di petto Conte o apre una fronda vera, essendo Giuseppi a capo di un Movimento che, per statuto, non è contendibile. Sarà dunque sempre lui che farà le liste elettorali con i suoi pochi irriducibili. Ma c’è confusione di ruoli anche ne Il Fatto Quotidiano, giornale di riferimento del Movimento, che prima ha usato Conte contro Di Maio e ora guarda con simpatia a un affiancamento nella leadership di Alessandro Di Battista, molto amato soprattutto dal «caregiver» Scanzi, il cui eventuale ritorno è osteggiato però dai romani guidati dalla barricadiere Paola Taverna e Roberta Lombardi.

Ma se Giuseppe Conte piange, Enrico Letta non sorride, ormai in confusione per il caos grillino. Costretto anche lui al metodo multitasking: da un lato, la costruzione di un nuovo Ulivo e dall’altro, esattamente come Conte, per sfoggiare quel tocco di «green», colore di punta ed ennesima bandiera della prossima stagione politica, le mire sono rivolte all’unione fra i Verdi e la sinistra, che pochi giorni fa ha lanciato «Nuove Energie», corteggiando anche l’Italia dei Valori e strizzando l’occhio, attraverso la corrente di base riformista guidata da Guerini, Margiotta e Lotti, all’operazione dimaiana di un polo centrista che guardi più a sinistra che a destra.

Di questa confusione beneficia sicuramente Mario Draghi che, poco alla volta, si è rassegnato, come tanti suoi predecessori, a dover surfare tra un voto di fiducia e l’altro. Di certo, il Draghi dei tempi d’oro non sarebbe mai andato in pompa magna a baciare l’anello a Erdogan lasciandogli gestire la Libia a suo piacimento, dopo peraltro avergli dato del dittatore l’anno prima. Forse la sintesi di questo «Governo dei migliori» viene sempre da Francesco Giavazzi il quale, alcune sere fa, perfettamente a suo agio con il suo bel cappello di paglia in testa immerso negli ozi romani di una festa al Gianicolo sponsorizzata dalle bollicine Ferrari, immaginava come si possa allungare il brodo e arrivare a giugno 2023 con questo Esecutivo, magari autopromuovendosi per una presidenza in scadenza a scelta tra Eni, Enel e Poste. E pazienza che Super Mario sia tornato solo Mario. Ma siamo proprio sicuri che, se non cade giù tutto prima, Mattarella si prenderà tutti i 70 giorni a disposizione prima di mandarci al voto? Giorgia ringrazia.
 

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