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Conte-Draghi, tanto rumore per nulla. Nessuno strappo del M5S: nove richieste per restare

Carlantonio Solimene
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La sintesi più efficace (e perfida) della giornata la scolpisce Alessandro Di Battista dalla sua pagina Fecebook: «E anche oggi il Movimento 5 Stelle esce dal governo domani». L'atteso redde rationem tra Mario Draghi e Giuseppe Conte a Palazzo Chigi si risolve con l'ennesimo «penultimatum» proferito dal leader grillino, che consegna al premier un papello con nove richieste in cui, in realtà, più di quello che c'è fa rumore quello che manca: nessun accenno né al termovalorizzatore di Roma né all'invio di nuove armi all'Ucraina. Questioni che venivano spacciate per dirimenti e che ora finiscono nel dimenticatoio. Il resto del documento è una sorta di «libro dei sogni» nel quale sono elencate misure già in parte decise dal governo (gli aiuti contro il caro bollette, il cashback fiscale), altre di difficile applicazione in tempi brevi (il salario minimo), altre ancora assai fumose (il no alle trivellazioni in Italia proprio mentre l'Europa inserisce il gas nella tassonomia green, maggior chiarezza sul reddito di cittadinanza, la semplificazione della cessione dei crediti per quanto riguarda il superbonus). Così come viene derubricata la questione delle presunte pressioni di Draghi su Grillo per togliere a Conte la guida del Movimento. «Se ne è parlato» dice l'ex premier, senza però aggiungere altro. Anche perché fin dall'inizio i rancori personali erano sembrati poco sfruttabili per giustificare la crisi di governo. Un accenno, infine, al «disagio» provato per alcune scelte del governo e alle lamentele per il mancato richiamo al ministro degli Esteri Di Maio, «colpevole» di aver attaccato il Movimento. Roba da seduta psicoanalitica più che da muro contro muro.

 

 

Ce n'è abbastanza, insomma, per far commentare in maniera soddisfatta da Palazzo Chigi che l'incontro si è svolto in maniera «positiva e collaborativa» e che «molti dei temi avanzati da Conte nell'incontro sono in una linea di continuità con l'azione governativa». Al punto che il leader del M5s «ha confermato il sostegno al governo» e «presto i due si vedranno di nuovo». Nel suo resoconto, invece, Conte prova a dare una versione più spigolosa. Dice che il Movimento non firma «cambiali in bianco» con l'esecutivo e che, sui punti proposti, si aspetta «risposte entro luglio». Insomma, teoricamente sono in vista altre tre settimane di fibrillazioni. Ma l'impressione è che tutto finirà come in occasione degli altri 4-5 strappi minacciati dai grillini: con un nulla di fatto. Anche perché aprire una crisi in agosto ricorderebbe troppo da vicino quel «Papeete» di cui Conte fu vittima e del quale avrebbe difficoltà a spiegare le ragioni al Paese. Toccherà, insomma, trovare una mediazione per far sì che Conte non resti a mani completamente vuote. Nel frattempo, però, il Movimento «ingoierà» il Dl Aiuti con tanto di norme per agevolare il termovalorizzatore di Roma e stretta sul reddito di cittadinanza. O meglio: oggi voterà sì alla fiducia ma poi si asterrà sul testo. Giochetto che, però, non potrà replicare a metà mese al Senato, dove il regolamento prevede un voto unico. Si vedrà.

 

 

Di fatto nel Movimento resta una divisione profonda tra chi staccherebbe la spina anche subito (l'ex sottosegretario Riccardo Fraccaro, per citarne uno) e chi, invece, a lasciare il governo non ci pensa affatto (i ministri, fatta eccezione per Stefano Patuanelli). Tanto che non si escludono defezioni sul voto al Dl Aiuti rispetto alla linea decisa dai vertici. Conte, insomma, è costretto a camminare sulle uova e a rimandare ogni decisione. Con l'unica soddisfazione di essere tornato al centro dei giochi politici e dei notiziari, almeno per qualche giorno. Resta il dubbio su come la maggioranza di governo, sfilacciata come non mai, possa affrontare la crisi d'autunno e uno snodo complicato come la legge di bilancio. Ieri il Pd ha salutato con favore il chiarimento tra Draghi e Conte, ma nel centrodestra hanno criticato aspramente la tattica grillina di tenere in ostaggio l'esecutivo. Non proprio i presupposti migliori per un governo di «unità nazionale».

 

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