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Il caso di Attilio Fontana dimostra l'uso spregiudicato della giustizia

Andrea Amata
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Il governatore lombardo Attilio Fontana, dopo due anni di gogna mediatica, è stato prosciolto dall’accusa di frode in pubbliche forniture. La storia dei camici, che il cognato di Fontana propone prima in vendita e poi come regalo, si sviluppa in piena pandemia sollevando un polverio vistoso di tipo giudiziario con lo scopo di criminalizzare l’operato del vertice politico della regione lombarda. Alcuni giornali hanno speculato sulla vicenda, soprattutto i veterani del giustizialismo, gonfiandola nell’intento di fabbricare una sorta di anticipazione della condanna. In spregio alla presunzione di innocenza, che è un principio cardine dello Stato di diritto, si è costruita una retorica colpevolista secondo lo schema inveterato per cui alla sola iscrizione nel registro degli indagati corrisponde la condanna preventiva. Nella vicenda dei camici era chiaro che la Regione Lombardia fosse rimasta «illesa» nelle sue finanze, ma Fontana per quasi due anni è rimasto impigliato nella graticola giudiziaria. La richiesta di rinvio a giudizio è stata respinta dal giudice con formula assolutoria piena: «il fatto non sussiste».

 

 

Due anni di indagini e di discredito mediatico sulla base di presunti fatti che sono stati dichiarati inesistenti. Dunque, un innocente è stato sbattuto in prima pagina evocando illeciti inventati, che erano verificabili al tempo in cui è affiorata l’indagine perché parliamo di cinquantamila camici regalati alla Regione generando, semmai, un’utilità per le casse economiche dell’Ente. Il giornalismo giustizialista ha la responsabilità di aver prodotto una minoranza molto attiva di magistrati forcaioli e militanti che, dalla legittimazione dei media, si sentono autorizzati a procedere con inchieste temerarie pur di assolvere ad un mandato di tipo politico. Per troppi anni abbiamo convissuto con un’alterazione dello Stato di diritto da parte di chi era preposto a garantirne l’integrità. La corrente giustizialista vede in Piercamillo Davigo il suo capo ideologico, che ha teorizzato un postulato aberrante secondo cui «non esistono innocenti, ma colpevoli non ancora scoperti». Tale impianto di pensiero, con l’ausilio spettacolarizzante fornito da certa stampa, produce uno scenario processuale parallelo a quello dei tribunali che prevale nell’immaginario collettivo.

 

 

Un circo mediatico-giudiziario in cui la verità viene sacrificata, nonostante rappresenti il traguardo a cui dovrebbero subordinarsi sia il processo che l’informazione. Invece, dalla loro sinergia spesso si realizza una perversione del concetto di verità con la consacrazione del pregiudizio colpevolista e dell’attitudine giacobina ad orientare l’opinione pubblica. Con il proscioglimento del governatore Fontana, tutti coloro che avevano allestito un processo mediatico, precorrendo in un sabba inquisitorio il verdetto di colpevolezza, dovrebbero scusarsi e scappellarsi del tocco in uso ai giudici. Intanto, il 12 giugno prossimo abbiamo la possibilità di partecipare al referendum per correggere alcune distorsioni del nostro sistema giudiziario. Un’occasione propizia su cui occorre mobilitare l’interesse dei cittadini per il raggiungimento del quorum del 51% dei votanti, evitando di vanificare lo strumento di democrazia diretta che può innescare un processo di riforme sulla giustizia affinché non ci siano più altri casi Fontana.

 

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