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Con il cashback fiscale (forse) si gira pagina: lo Stato può recuperare la fiducia dei cittadini

Pietro Bracco - fiscalista e adjunct professor Luiss Business School
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L'italiano è una lingua bellissima. Per dire uno stesso concetto possiamo usare diversi sostantivi, aggettivi, farciti con variegati avverbi. Poi abbiamo l'omofonia linguistica, parole con pronuncia identica ma significato differente. Possiamo, inoltre, usare la stessa parola attribuendole significati differenti, che possono dare sensazioni positive o negative. All'università facevamo il gioco di chiedere cosa significasse «740», per vedere che poteva essere la dichiarazione dei redditi (sensazione negativa), un modello di Volvo (sensazione positiva) o le otto meno venti (sensazione neutra). Recentemente sono entrati nell'italiano gli inglesismi. Un inglesismo che va molto di moda e cerca di dare positività è cashback. L'abbiamo iniziato a conoscere in ambito commerciale: se compri presso un certo esercente con una certa modalità di pagamento, una parte di quello che hai pagato ti ritorna indietro sotto forma di sconto, buono o altro.

 

 

È entrato nell'ambito tributario nel 2021 per incentivare i pagamenti elettronici e l'emissione degli scontrini; in altre parole, riduciamo la circolazione del contante e del nero. Questo cashback prevede la restituzione, a determinate condizioni, sul conto corrente dei consumatori finali del 10% del valore delle transazioni fatte mediante strumenti di pagamento elettronici presso esercenti fisici. In questi giorni si parla cashback fiscale per trasformare le detrazioni, come ad esempio quelle per spese sanitarie, in rimborsi fatti direttamente ai cittadini (poi ci diranno come) e non più come riduzioni delle imposte. I partiti stanno discutendo se inserire quest'altro cashback nel disegno di legge delega per la riforma fiscale; parolone che vuole dire che, semmai deciso, lo vedremo tra almeno un annetto. A naso, il principio non mi dispiace. Più velocemente vengono dati ai cittadini i soldi a cui hanno diritto, meglio è. Questo dovrebbe essere un concetto che permea il nostro sistema dei rimborsi, di qualunque imposta si tratti.

 

 

Un po' di giorni fa ero a cena con un manager italiano che prima lavorava in Australia; era stupito della tempistica con cui in Italia si rimborsassero i crediti Iva. In Australia li aveva in 9 giorni. Mi spingo oltre, mi piacerebbe che la velocità di pagamento fosse non solo per le imposte ma anche per le transazioni commerciali con la pubblica amministrazione, sia essa Comune, Regione, Stato o altro ente. Pende in Senato un disegno di legge (AS1889 - 22.7.20) che istituisce il Conto Unico della PA, all'interno del quale sono registrati e compensati tutti i debiti e i crediti vantati a qualsiasi titolo da un contribuente verso la PA. Un sogno? Forse, ma se si realizzasse potremmo iniziare ad avere sensazioni positive a parole che fino a oggi, magari, ne danno diverse. D'altronde, nella relazione illustrativa si legge che la proposta vuole recuperare «quella fiducia nello Stato, come soggetto impositore, che è il presupposto per un rilancio della crescita e della competitività del Paese».

 

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