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Le insidie del partito trasversale filo-Putin: acque agitate per il governo Draghi

Riccardo Mazzoni
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La politica estera è stata, fino dai tempi della Guerra Fredda, il passaporto politico per poter accedere all'area di governo, tanto che il Pci, prima del compromesso storico, dovette fingere di abiurare i suoi storici legami con Mosca con il pronunciamento di Berlinguer che disse di sentirsi più al sicuro sotto l'ombrello della Nato. Ma anche dopo la caduta del Muro di Berlino le guerre in Kosovo e in Afghanistan furono fattori destabilizzanti per i governi della sinistra. Ora, con un esecutivo di larghe intese alla guida del Paese, la prima reazione al conflitto ucraino è stata in linea con lo spirito di unità nazionale con cui nacque la strana alleanza e che resta - o dovrebbe restare - la sua forza propulsiva e il suo cemento, due fattori che si sono però parecchio indeboliti sia per il pasticcio del voto sul Quirinale, sia per le imminenti prove elettorali, con i partiti di maggioranza in preda a fisiologiche spinte identitarie e quindi centrifughe. Da qui una serie di incidenti parlamentari, le divisioni sulla delega fiscale, sul catasto, sulla concorrenza e sulla giustizia - questioni cruciali perché legate alle risorse dei Pnrr - tutte manifestazioni di una deriva difficilmente gestibile anche da un premier autorevole come Draghi, apparso per la prima volta in evidente difficoltà.

 

 

Poi lo scoppio della guerra nel cuore d'Europa sembrava aver messo la sordina alle polemiche: una svolta certificata dal voto quasi unanime del Parlamento anche col significativo apporto del maggior partito di opposizione. Una tregua sotto la quale però le braci della discordia non hanno mai smesso di ardere, e il fuoco è infatti tornato a divampare nella giornata peggiore, ossia quella del discorso di Zelensky davanti alle Camere riunite, quando le standing ovation non hanno potuto nascondere i distinguo, i vuoti tra i banchi e la diserzione trasversale del partito filoputiniano, che in Italia è il più forte d'Europa. A fronte di una bussola strategica, quella di Draghi, orientata ad una coerente politica di aiuti all'Ucraina e di rafforzamento della solidarietà occidentale, Salvini e Conte ad esempio hanno marcato i loro territori politici dando sfogo ai diffusi malumori di Lega e Cinque Stelle: il Capitano ergendosi a novello messaggero di pace, l'Avvocato ordinando ai suoi senatori di ribaltare il voto con cui alla Camera il Movimento aveva approvato l'aumento delle spese militari fino al due per cento del Pil. Nel momento in cui è in gioco la nostra credibilità internazionale, oltre che la stessa sicurezza del Paese, il governo si trova dunque a fare i conti con il ritorno di fiamma delle pulsioni che ai tempi della maggioranza gialloverde portarono l'Italia a sbandare vistosamente rispetto alle sue storiche alleanze. Uno sgradevole dejavu simboleggiato dalla vicenda grave ma non seria del presidente della Commissione Esteri del Senato, da cui passeranno tutti i delicati dossier ucraini, che resta al suo posto nonostante la sbandierata posizione filorussa.

 

 

Il grande paradosso di queste ore è che Draghi, in quanto ad atlantismo, può contare molto più sulla lealtà di Fratelli d'Italia che su qualche partito di maggioranza, a conferma delle crepe politiche che si sono progressivamente aperte e dei sommovimenti in atto nella variegata coalizione di governo. I Cinque Stelle sono ormai un arcipelago fuori controllo alla ricerca cerca del leader perduto, divisi tra il neo-occidentalismo di Di Maio e l'equilibrismo impossibile di Conte, che flirta con l'ala anti-Nato ed è alle prese con l'oscura è imbarazzante missione russa in Italia all'inizio della pandemia. La Lega non è più il monolite granitico dei tempi belli, e sconta l'appannamento della leadership di un Salvini ondeggiante che non riesce a strapparsi di dosso la sindrome della felpa. Il Pd gongola silente nel ferreo sostegno a Draghi, ma il campo largo di Letta assomiglia a un percorso minato dalle storiche contraddizioni della sinistra, incapace di fare sintesi tra massimalismo e riformismo. Tutti guardano già all'orizzonte delle politiche, senza considerare che dopo la guerra nulla sarà come prima, e che questo è il momento peggiore per disertare.

 

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