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Un presidente sovrano al Quirinale e quel monito inascoltato di Napolitano

Riccardo Mazzoni
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Il voto per il Quirinale ha sempre rappresentato uno snodo cruciale per la vita politica, ma questa volta ha letteralmente terremotato il Palazzo e stravolto ogni plausibile scenario, se è vero che il vecchio centrodestra è arrivato al capolinea e il nuovo centrosinistra è morto ancor prima di nascere. Ma, soprattutto, è esplosa tutta insieme la crisi di autorità delle segreterie dei partiti, con un capo dello Stato per la prima volta imposto da un Parlamento in autogestione e non da un accordo fra presunti leader apparsi più di sempre le pallide ombre dell’inconcludenza. Lo stesso Draghi, ex SuperMario, esce ridimensionato da questa prova, perché dopo aver vagheggiato inutilmente l’ascesa al Colle ha dovuto aggrapparsi alla rielezione di Mattarella per salvare la faccia e Palazzo Chigi. Tra Caporetto, Waterloo e vittorie di Pirro sparse da destra a sinistra, siamo dunque all’Anno zero della politica italiana, e la sfilata dei capigruppo in ginocchio dal presidente uscente perché accettasse il reincarico - replicando l’implorazione rivolta a Napolitano nel 2013 - ha certificato la definitiva abdicazione del Parlamento e l’avvento al Quirinale di una sorta di monarca costituzionale. Altro che poteri a fisarmonica: da ieri l’inquilino del Colle va considerato il dominus assoluto della democrazia, e sarebbe l’ora di prenderne atto adeguando la Costituzione alla realtà, facendolo eleggere direttamente dal popolo. Ma è legittimo dubitare che questa classe politica sia all’altezza del compito.

Sono passati nove anni da quel 22 aprile, quando Napolitano pronunciò davanti alle Camere riunite un discorso talmente duro da sembrare una vera e propria requisitoria nei confronti di chi pure lo aveva appena rieletto in modo plebiscitario. E più usava il bastone della verità, più veniva sommerso dagli applausi scroscianti in un clima surreale: ero appena diventato senatore, ed ebbi la (s)ventura di vivere quei momenti da uno scranno di Montecitorio, in mezzo a colleghi trionfanti e allibiti, all’alba travagliata di una legislatura senza vincitori, con il governo Monti in lunga prorogatio.

Napolitano ostentò la tempra del vecchio comunista: severo e impassibile, ma livido in volto, non fece sconti a nessuno: ricordò di aver più volte condiviso – esattamente come Mattarella in questi mesi - «l'autorevole convinzione» che la non rielezione, al termine del Settennato, sia «l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica». E che un secondo mandato non si era mai verificato nella storia della Repubblica, anche se la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra» solo per tempi eccezionali. Aggiunse però di aver avvertito «un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello Stato. Di qui l’appello che ho ritenuto di non poter declinare». Bisognava dunque offrire, al Paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai problemi «passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia».

Le assonanze con le convulsioni di questi giorni sono evidenti: allora come oggi c’era infatti il rischio di una drammatica crisi di sistema da scongiurare, ma ora si aggiunge il capo d’imputazione della pandemia in corso e dell’illusorio cemento di un’unità nazionale che si è dimostrata fragile, forzata e fittizia a causa di una nomenklatura in caduta libera costretta per la seconda volta ad affidarsi al paracadute quirinalizio. Per cui le parole di Napolitano furono in qualche modo profetiche: «Quanto è accaduto qui nei giorni scorsi – scandì - ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità», che hanno ignorato «le domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale e a cui non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere solo contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi». Una deriva che aveva aperto ampi varchi «all’insoddisfazione e alla protesta verso la politica, i partiti e il Parlamento» alimentate e ingigantite «da campagne di opinione demolitorie». E non meno imperdonabile fu il nulla di fatto in materia «di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario».

Napolitano denunciò anche «la sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale». Poi il crescendo di accuse approdò all’avvertimento finale: «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». Al quale servivano – e servono ancora, in tutta evidenza – «soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale», e in questo il Quirinale deve fungere «da fattore di coagulazione». Ecco: Mattarella se volesse potrebbe fare copia e incolla di quell’ormai lontano discorso: basterebbe qualche piccolo aggiustamento, perché in questi anni il sistema politico non solo non è riuscito a produrre riforme condivise, ma si è ulteriormente avvitato in una traversata che ha condotto il Paese da Monti a Draghi, col bipolarismo in frantumi, un Parlamento porto delle nebbie e un futuro con l’unica bussola certa di un Presidente-sovrano al Quirinale.

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