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La dittatura dei numeri: chi governa ne abusa e siamo tornati ai tempi di Giuseppe Conte

Hoara Borselli
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Un saggio un giorno scrisse: «I numeri governano il mondo». Mai metafora fu più calzante. Le nostre vite, le nostre libertà, i nostri diritti fondamentali dipendono ormai solo dai numeri, usati ed abusati per giustificare ogni decisione ed imposizione. Il numero che diventa un ricatto esplicito, che fa cambiare colori alle regioni, che rispedisce i ragazzini in Dad, che fa ridurre la capienza negli stadi, vieta concerti ma soprattutto quel numero che alimenta la liturgia del terrore da rinfrescare senza sosta per evitare che possa perdere la sua efficacia persuasiva. È passato poco più di un mese dall'inizio dell'anno ed è ripartito a passo svelto il pallottoliere dei decreti. Cinque decreti in meno di trenta giorni con il sesto in arrivo: uno varato il 24 novembre, uno il 15 dicembre, uno il 23 dicembre, uno il 29 dicembre e l'ultimo il 5 gennaio. In una parabola del nuovo che automaticamente smentisce il vecchio, gettando con un colpo di spugna gli italiani in una spirale dove ormai il caos regna sovrano. Una realtà dominata dai Dpcm, quell'acronimo diventato familiare grazie all'ex Presidente Conte e che tutti noi speravamo lo seguisse nella sua dipartita. Almeno in questo speravamo che il governo Draghi regalasse una discontinuità. Passi per esserci trovati a dover accettare come migliore, un esecutivo che vedeva riconfermati Speranza e Di Maio, però ripiombare nel panegirico dei decreti infiniti, ha confermato quanto di discontinuo in questo governo ci sia solo la coerenza.

 

 

Ancora non sono stati metabolizzati i cinque decreti che sta arrivando il sesto. Lo prevede espressamente il decreto Covid varato dal governo il 5 gennaio con nuove misure per contrastare la pandemia, lo stesso che ha introdotto l'obbligo vaccinale per gli over 50. Ricordate il film «Ricomincio da capo», dove un giorno si ripete incessantemente con le stesse modalità? Ecco, con lo stesso ritmo si scandiscono i tempi del prossimo provvedimento. Quella che sarebbe dovuta essere la svolta contro la quarta ondata della pandemia, è stata la Caporetto di un governo indeciso su tutto ed incomprensibile a tutti. Basti leggere cosa dice il sesto decreto per capire quanto la chiarezza sia la costante «perfetta sconosciuta». Stabilisce che servirà il certificato base per entrare nelle attività commerciali, con l'esclusione di «quelle necessarie per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali», rimandando la decisione a un nuovo provvedimento. Quindi tutti pronti che arriverà il settimo per chiarire i contenuti del sesto. Si ripiomba quindi nell'incubo delle attività essenziali e la lista dei negozi aperti a tutti diventa un punto di domanda: niente codici Ateco. L'unica cosa certa è dal primo febbraio 2022, servirà il Green Pass semplice (quindi quello con il risultato negativo di un tampone) anche per entrare negli uffici pubblici, alla posta, in banca e nei negozi. Ma - ovviamente - ci sarà sempre una lunga serie di attività per le quali non sarà richiesto nessun certificato. Già, ma quali saranno? Per ora non è chiaro.

 

 

Ci sono dei punti fermi. Per fare la spesa al supermercato, andare in farmacia, dal medico di base o dal veterinario non servirà il Green Pass, mai. Ma per tutto il resto? Quali sono le attività, dunque i negozi necessari per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie? Il terreno è palesemente scivoloso e si rischia, con assoluta certezza, di andare a soffiare sul fuoco a quella confusione che i titolari di esercizi commerciali si trovano a dover rivivere come una «colpa» che pensavano di aver già abbondantemente espiato. Il dibattito è ancora acceso e aperto a continue modifiche e secondo quel che trapela, a differenza che in passato non si dovrebbe procedere in base ai codici Ateco (Sole24Ore). Una certezza granitica l'abbiamo maturata: qualunque decreto che sarà varato, sopravviverà il tempo necessario per studiarne uno nuovo ancora più incomprensibile del precedente. Del resto siamo o non siamo il Paese migliore? Come sappiamo dare i numeri noi, non li dà nessuno. In questo l'Economist non ha sbagliato!

 

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