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Ddl Zan, la sconfitta è figlia del vittimismo tanto caro a sinistra

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Benedetta Frucci
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Alla fine di un iter legislativo costellato da polemiche, con tanto di illuminati interventi della coppia Fedez-Ferragni, dal “politici fate schifo” al “pagliacci senza pa**e”, gli anticorpi del sistema parlamentare hanno respinto il ddl Instragram-pardon Zan, una legge che, partendo dal sacrosanto principio di tutelare una minoranza, inseriva nell’ordinamento dei germi illiberali quanto meno preoccupanti.

Uso il termine illiberali, ma dovrei forse dire fascisti, così per cedere a quel vezzo italico, molto in voga nelle ville e nelle cucce di Capalbio, di catalogare come fascista qualunque pensiero, parola, atto anche solo lontanamente estremista.

E in effetti, a sentire il Partito Democratico che invoca l’abolizione del voto segreto, il dubbio che qualche rivalutazione del fascismo la stiano facendo, viene. Fu Mussolini infatti, a osteggiare l’uso del voto segreto, così da poter controllare meglio il Parlamento. E fu, come ricordó anni fa il compianto Massimo Bordin, il PCI a criticare fortemente Craxi tacciandolo di fascismo per aver ampliato il ricorso al voto palese.

E ancora di fascismo - più precisamente squadrismo - verrebbe da parlare quando i supporter dello Zan esprimono il loro “disappunto” per il naufragio della legge. Si va dal “fascisti! Merde!” urlato sotto la sede di Italia Viva a Firenze, all’augurare al leghista  Pillon di finire a Piazzale Loreto torturato, ucciso e appeso a testa in giù. Il paradosso di chi usa l’odio per difendere una legge contro l’odio. 

Un meccanismo affascinante: per chi non è schierato dalla “parte giusta”, non esistono diritti, non esiste libertà, non esiste neppure il diritto all’integrità fisica. Nessuna sorpresa: l’humus culturale è quello di chi, negli anni di piombo, forniva il soccorso rosso ai brigatisti o a chi spappolava cervelli a colpi di chiave inglese. Le garanzie sono morte nell’universo dell’estremismo progressista o forse non sono mai esistite: i processi corrono sul web e sulle piazze, al massimo sulle colonne di Repubblica. Eppure, la verità è palese, cristallina.

Lo Zan è stato ucciso dal massimalismo di chi, anziché preoccuparsi di tutelare davvero la comunità omosessuale, ha preferito schiantarsi in modo grottesco pur di portare avanti la propria bandiera. Che i numeri non ci fossero, non era un mistero per nessuno. Difficile quindi credere che Enrico Letta non ne fosse a conoscenza.

Se a pensar male si fa peccato, insomma, è anche vero che il più delle volte ci si azzecca: nella sceneggiatura,  la parte della vittima è in fondo un buon ruolo da giocare in campagna elettorale e un ottimo palcoscenico pure per Alessandro Zan, che, con i capelli impomatati, rilascia interviste, twitta cose e si prepara a un futuro da star.

E poi, c’è il nemico perfetto: quel pluriomicida di Matteo Renzi, il recidivo, l’autore del Conticidio. O Conte o morte, gridava il Pd allora. E morte fu. O Zan o morte, gridava ieri. E morte fu. Poco importa la matematica, che dice, numeri alla mano, che i franchi tiratori arrivavano da tutti i partiti di sinistra, dal Misto e dal M5S. 

The show must go on. Fortuna vuole che l’Italia abbia ancora solide difese contro il pensiero unico, anzi direi una forte allergia a tutto ciò che anche lontanamente suona come assolutistico. Difese che andrebbero, però, coltivate: dalla stampa, fino alla politica liberale, occorre una forte presa di coscienza sul pericolo che le democrazie stanno affrontando.

Perché se oggi il Parlamento trionfa ancora sul populismo dei social network, così potrebbe non essere quando il pubblico dei Fedez di turno sarà adulto e si recherà alle urne. Guardando alla Gran Bretagna, dove la filosofa femminista e lesbica Kathleen Stock, dopo mesi di pressioni e minacce, isolata dai colleghi, condannata dal tribunale di Twitter, è stata costretta a lasciare la propria cattedra all’Università del Sussex per aver osato dire che il sesso biologico esiste.

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