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Il retroscena sull'ultimo fallimento di Colao sul piano per l'Italia digitale

Luigi Bisignani
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Caro direttore, il piano Colao dell’epoca Conte è finito dritto nei cassonetti di Palazzo Chigi e oggi rischia la stessa malasorte quello che l’ex manager Vodafone sta per partorire per la banda ultralarga. Circolano idee bislacche che, più che connettere l’Italia, sembrano lasciarla nel medioevo digitale: 1.200 Comuni ancora senza internet, ben 34.000 scuole da collegare e il 33,8% delle famiglie italiane senza un computer. Per di più mettendo l’uno contro l’altro il ministro dello Sviluppo economico e quello della Transizione digitale, con l’aggravante che i modelli dell’evanescente Vittorio Colao trovano sponda nel Premier Draghi e nel suo scudiero Francesco Giavazzi. Le teorie formulate dal duo Draghi-Colao stanno gettando nel panico il settore e si contrappongono ai ragionamenti concreti di uno come Giancarlo Giorgetti, fine conoscitore del territorio e dei mille cavilli della burocrazia. Peraltro, su un tema cruciale come il piano digitale non è pervenuta alcuna proposta da parte del ministro dell'Economia Daniele Franco, mentre nel suo Palazzo già volano gli stracci tra il neo-capo di Cassa Depositi e Prestiti, Dario Scannapieco, e il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera. Così come, e non era neppure quasi nato il Governo, tra i due facinorosi capi di gabinetto Stefano Firpo (Colao) e Paolo Visca (Giorgetti) che si bisticciavano alcune competenze legate all'energia e alle telecomunicazioni. Una rissa continua che Draghi non riesce più a contenere.

 

 

Colao insiste che la progettazione delle infrastrutture di telecomunicazione del fisso e del mobile, previste dal Recovery plan, debba passare attraverso una trentina di gare locali. Il che significa bloccare di fatto il Paese in una giungla tra codice degli appalti, Tar e Consiglio di Stato. Procedure che vorrebbe anche - ed è una novità delle ultime ore - per le Tlc nell’Alta Velocità Ferroviaria e nelle autostrade. Ben diverso sarebbe creare dei consorzi a cui potrebbero aderire, anche in un secondo momento, gli operatori locali e le imprese di rete che rappresentano nel territorio la forza lavoro. Sarebbe la soluzione più ragionevole e logica, visto quanto a suo tempo accaduto grazie all’intuizione di Lorenzo Necci per i Treni Alta Velocità dal momento che si parla di creare un’infrastruttura nazionale che debba avere necessariamente una visione unitaria con tempi certi (entro 2026), costi ben definiti e manutenzioni collegate e trasparenti. Con reti separate, invece, si duplicano gli investimenti nelle zone più redditizie e si lasciano indietro molte aree del Paese, vale a dire i soliti piccoli Comuni, i borghi, i distretti e le periferie. Eppure Draghi, seguendo la via della rete unica, avrebbe la possibilità di correggere un suo grave errore degli anni ’90, proprio sul terreno delle Tlc, quando era direttore generale del Tesoro. Fu lui, infatti, assieme a Prodi presidente del Consiglio e Ciampi ministro del Tesoro, a cacciare in malo modo Ernesto Pascale che con il «Piano Socrate» aveva iniziato a cablare con la fibra ottica le 19 maggiori città, servendo dieci milioni di cittadini nel giro di pochi anni e facendo diventare in breve tempo l’Italia la nazione più digitale d’Europa. Da allora è iniziato il declino di Telecom che nel mondo se la giocava con grandi colossi come Telefónica.

 

 

Troppi gli interrogativi attorno alle scelte che Colao vuole imporre, non ultime le ombre sul suo lungo passato in Vodafone, da dove dicono sia uscito in anticipo per gli scarsi risultati ottenuti, a cui si aggiunge la circostanza che molti dei suoi collaboratori dell’epoca, a partire da Stefano Parisse, siedono oggi accanto a lui al Ministero in questa partita decisiva per il futuro del digitale e delle principali aziende del Paese, da Tim ad Open Fiber. Con Vodafone, ovviamente, convitato di pietra. Fosse stato un ministro di Berlusconi sarebbe già stato messo sulla graticola nella quale tuttavia ci finì veramente nel breve periodo in cui è stato ad di Rcs. Appena arrivato, tra una corsa in bicicletta e una surfata in mezzo alle onde, ebbe la brillante idea di ordinare un audit sulle spese di Paolo Mieli, al tempo direttore de Il Corriere della Sera, con l’intento gesuita di colpirne uno per educarli tutti. Si rivelò un boomerang: non si trovò neppure lo scontrino di uno spritz nei bar di Brera e da lì venne soprannominato «Colao Meravigliao». Pur essendo rigidissimo, avendo ricevuto un’educazione calvinisticamente severa dalla madre, l’inflessibile Popi Pellizzari, nel suo breve periodo precedente a Omnitel, si ricorda ancora un’iniziativa di marketing con il Touring Club italiano dove, guarda caso, lavorava una donna tosta e preparata: Silvia Cassinis, sua moglie. E ora che a Colao è passata pure la delega di Tabacci all’aerospazio, c’è da sperare che l’Italia non finisca nel remake involontario di «2021: Odissea nello spazio».

 

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