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Cambi di casacca e assenze, dimagrisce la maggioranza che sostiene Mario Draghi

Carlo Solimene
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Sulla carta la maggioranza che sostiene il governo Draghi è più solida che mai. Addirittura, numeri alla mano, più numerosa di quella che - cinque mesi fa - accordò la fiducia all’esecutivo guidato dall’ex governatore della Bce. All’epoca a schierarsi all’opposizione fu la sola Fratelli d’Italia e l’asticella dei «sì» si innalzò fino a 262 voti al Senato e a 535 alla Camera. Certo, diversi dissidenti 5 stelle si smarcarono da subito e molti di loro sono poi confluiti in una nuova formazione, «L’Alternativa c’è». Ma l’effetto dei cambi di casacca, nei freddi numeri, non si vede. Teoricamente, il governo Draghi può contare addirittura su più voti di quelli che ne hanno battezzato la navigazione: oltre 550 alla Camera e oltre 280 al Senato. Una cosa, però, sono i voti sulla carta, un’altra quelli reali. E allora l’ultima settimana vissuta dall’esecutivo dovrebbe suonare come un lieve, lievissimo campanello d’allarme.

 

 

Il governo ha infatti posto la fiducia su due decreti per accelerarne l’approvazione, il «Sostegni Bis» al Senato e quello sulla governance del Recovery alla Camera. L’ha ovviamente ottenuta in entrambi i casi. Ma con numeri che sono solo lontani parenti di quelli dell’esordio: 213 sì a Palazzo Madama, appena 265 a Montecitorio. Certo, si dirà, a influire è il numero delle assenze. Innegabile. Tanto è vero che anche i «no» ai provvedimenti sono stati pochissimi. Quando il risultato è scontato gli onorevoli marcano visita. Eppure è proprio in queste occasioni che può scattare la trappola parlamentare. Se ne è accorto il premier proprio nel passaggio parlamentare del decreto Recovery, quando il governo è andato sotto in commissione per ben due volte. La prima, sul dissesto idrogeologico, con i deputati che hanno approvato un emendamento presentato dalla Lega. La seconda sconfitta in commissione era arrivata pochi giorni prima, con l’ok all’emendamento a firma M5s che prevede la possibilità di modifica degli obiettivi green. Poca roba, per ora. Eppure nel futuro prossimo la situazione potrebbe leggermente peggiorare. Uno dei fronti considerati caldi è il possibile esodo di onorevoli forzisti verso le sponde meloniane. Il caso più eclatante è quello dell’ex vicepresidente dei senatori azzurri Lucio Malan, passato a sorpresa in Fratelli d’Italia. Voci di Palazzo segnalano come la fila per accasarsi tra gli ex An sia piuttosto nutrita. «La Meloni ne accoglie uno ogni otto che bussano alla sua porta» si vocifera. Finora, anzi, si può dire che la leader sia stata piuttosto rispettosa degli alleati. Le acquisizioni, quando sono arrivate, hanno rappresentato più che altro una reazione a qualche sgarbo subìto, come l’estromissione dal Cda della Rai ricambiata, per l’appunto, con lo «scippo» di Malan. Ma non è difficile immaginare come la pressione per accasarsi in Fratelli d’Italia rischi di crescere sempre di più, essendo il partito della Meloni l’unico in predicato di aumentare i seggi da distribuire nella prossima legislatura.

 

 

Il secondo fronte è quello del malcontento grillino. Che potrebbe manifestarsi già la prossima settimana in occasione della fiducia sulla riforma della Giustizia. Alla fine il tutto potrebbe limitarsi a soli 10-15 deputati (magari con assenze strategiche e non voti contrari, per evitare sanzioni disciplinari) ma quello che ne verrebbe fuori sarebbe comunque una maggioranza indebolita. E che rischierebbe di perdere uno desi suoi vantaggi strategici: il fatto che nessun partito ha, al momento, la golden share sul governo. In futuro, cioè, i circa 150 deputati grillini, minacciando lo strappo, potrebbero persino mandare Draghi in minoranza. Tra il dire e il fare, in questo caso, c’è la poltrona. Difficile immaginare un simile gesto da chi, per non far finire la legislatura, ha ingoiato qualsiasi tipo di alleanza. Specie se il leader che dovrebbe ispirarlo, Giuseppe Conte, non è in grado di garantire la rielezione neanche a metà dei suoi soldati. Ma l’incidente parlamentare potrebbe essere sempre dietro l’angolo, specie nel semestre bianco. E il ministro Federico D’Incà, titolare dei Rapporti col Parlamento, potrebbe essere costretto a inviare i famigerati messaggini ai deputati più assenteisti per richiamarli urgentemente in Aula. Uno scenario impensabile, fino a qualche settimana fa.

 

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