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Mario Draghi, quando parla agli italiani. Alessandro Giuli: "Il premier non può più stare in silenzio"

Alessandro Giuli
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Mario Draghi ha sin qui applicato alla lettera l’antico motto romano-prussiano: “Res, non verba”. Come gli alchimisti medievali, il premier gesuita sa che “la parola è d’argento ma il silenzio è d’oro”; meglio ancora se questo silenzio è operoso e circondato da un’autorevolezza che induce al rispetto se non al timore. Tuttavia questo schema funziona alla perfezione quando gli arcani del potere si applicano a condizioni di relativa normalità. Il presente momento, caratterizzato dallo stato d’eccezione pandemico, non ha quasi più nulla di normale. Lungi dal dover ricalcare l’inconcludente vanagloria mediatica del predecessore Giuseppe Conte, l’ex banchiere centrale europeo ha nondimeno, diciamo così, esaurito il capitale di spirito taciturno ed è ora che si acconci a parlare alla Nazione. Ma per comunicare cosa?

Tanto per cominciare è desiderabile una conferma ufficiale del quadro generale sanitario, compito altrimenti demandato in via ufficiosa ai soliti sussurri di corridoio o ai proclami a mezza bocca degli esperti: sulla base dei dati riservati, l’Italia è o no sul limitare di un’altra ondata travolgente di coronavirus? E se sì, come probabile, perché non fare subito un discorso di verità agli italiani e rassicurarli attraverso la pubblicazione d’un piano sequenza straordinario da inverare in tre mosse? Ovvero: militarizzare la crisi, centralizzare la catena di comando limitando al minimo il potere delle Regioni e vaccinare a rotta di collo i cittadini con ogni siero disponibile; in attesa che la conversione bellica promessa da Federfarma porti nei nostri cannoni una robusta linea di rifornimento vaccinale prodotta nella Penisola. Soltanto con questi requisiti, raggiungibili non meno che ragionevoli, sarà più che comprensibile la consegna della cittadinanza a un altro lockdown generalizzato e praticato con rigore estremo in un arco temporale opportunamente definito (almeno un mese, a senso). 

Obiezione: i presupposti ci sono, mancano però i vaccini. E’ vero e non è vero. Di là dalle polemiche sullo scarso utilizzo del siero di AstraZeneca per le fasce d’età superiori ai 60 anni (peraltro in via di superamento), sembra che finalmente l’Ema stia accelerando nel protocollo di verifica intorno al russo Sputnik, e che fra Johnson&Johnson e altri prodotti circolanti l’Italia disporrà entro un mese della potenza di fuoco necessaria. Sicché, se davvero consideriamo preferibile una chiusura spaventosa all’attuale spavento senza prospettiva, è giunto il momento di comunicarlo alla Nazione con le parole giuste e il timbro chiaro e freddo e impersonale perfino che si conviene al plenipotenziario di Palazzo Chigi. Oltretutto, ma è ovvio, ciò è da realizzare sulla base di un Dpcm scolpito nel marmo mentre l’Esercito pattuglia le strade e accorre a vaccinarci casa per casa.

Seconda obiezione: avete propalato per mesi il vostro allarme contro la presunta dittatura sanitaria dell’avvocato di Volturara Appula, adesso state chiedendo né più né meno che una sospensione armata della democrazia? No, semplicemente ci ribellavamo a un aspirante regime da operetta effigiato dalle primule di un archistar: la dittatura (in questo caso sanitaria) è un istituto giuridico fuori corso ma di regola efficiente e sempre temporaneo. Ben venga il suo simulacro costituzionale. 

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