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Draghi o la minestra riscaldata

Franco Bechis
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Di ora in ora si sta stagliando all’orizzonte la figura più volte evocata di Mario Draghi per ridare un governo credibile e forte all’Italia e chiudere una crisi politica che non riesce ad uscire dal suo pantano. Draghi potrebbe entrare in campo solo se chiamato come ultima soluzione dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla guida di un governo di salvezza nazionale che sarebbe se non appoggiato, almeno lasciato partire in vario modo dal centrodestra. È una ipotesi sempre più forte, anche se nessuno ha consultato davvero il diretto interessato che invece ad amici ha sempre manifestato la sua indisponibilità ad entrare in campo per un incarico politico. Ma è la sola carta che potrebbe restare da giocare per il Quirinale e non potrà non essere giocata.

 

La crisi politica infatti non sembra affatto in via di soluzione. Anzi. È assai probabile che il presidente incaricato, Roberto Fico (che è anche presidente della Camera), domani salga al Quirinale per gettare la spugna e dire che l’esplorazione non ha trovato al momento soluzione. Per carità, non sono da sottovalutare le chance di successo del tavolo programmatico attorno a cui Fico oggi riunirà due rappresentanti di ogni partito di maggioranza. Discuteranno seriamente, spiegheranno cosa per loro è irrinunciabile e cosa impercorribile. Ma difficilmente verranno a capo di un accordo. L’aria non sembra quella, e si capisce anche perché. Fin qui il M5s e il Pd si sono arroccati su una cantilena, secondo cui qualsiasi programma ci sia (si può discuterne), qualsiasi maggioranza ci sia, comunque a guidare il governo dovrà esserci Giuseppe Conte. Certo un premier che è riuscito a guidare il governo con Matteo Salvini e mettere la sua firma sotto i decreti sicurezza e poi ne ha guidato uno con Leu e ha messo la sua firma sotto i contro-decreti sicurezza, che ha creduto nel programma più di destra mai presentato e poi in quello opposto molto di sinistra, può guidare qualsiasi governo si possa immaginare. Conte saprebbe adattarsi a un governo Malena-Rocco Siffredi come a uno fondato su un patto di legislatura fra seminaristi. Ma da due forze politiche importanti - una più recente, l'altra di lunga storia - ci si sarebbe attesi qualcosa di più della cantilena stucchevole sulla persona del premier uscente. Anche perché Conte non c’è più, e il governo che lui ha guidato fin qui neppure. Hanno rassegnato le loro dimissioni nelle mani del capo di Stato, Sergio Mattarella, e non ci sono più. Se vengono riproposti, si sa già che partirebbero zoppi come hanno terminato il loro mandato, e quindi non otterrebbero la maggioranza assoluta in uno dei due rami del Parlamento non avendo nemmeno quella relativa su alcuni temi, come quello della giustizia. Quello schema fin qui seguito dai due grandi azionisti dell’esecutivo uscente non può essere quindi riproposto, e lo sanno benissimo sia Vito Crimi che Nicola Zingaretti. Se stanno fermi su un punto irrealistico è perché quindi puntano ad altro.

Quando Matteo Renzi aprì la crisi formalmente, non lo fece senza prima avere contatti riservati da una parte con Zingaretti e dall’altra con esponenti del M5s. Con loro aveva verificato la possibilità di avere al posto di Conte un altro premier. E l’ipotesi più fondata sembrava essere quella di Dario Franceschini, attuale capo delegazione del Pd al governo. Ma è naufragata rapidamente, perché il Pd per quanto rimpicciolito è ancora partito dalle varie anime e correnti, e chi veniva dalla storia Ds si è messo di traverso. Prima di tutti il vicesegretario, Andrea Orlando, e poi lo stesso Zingaretti. Che quindi si sono dovuti arroccare sulla linea del Conte ter per tenere insieme la baracca. In quel modo però è stata messa da parte la sola opzione che avrebbe salvato un governo politico con quella maggioranza: il cambio di timoniere con tutto il sistema di potere che ha organizzato intorno alla sua persona.

 

È vero che Renzi fin qui ha parlato solo di contenuti, ma è anche vero che quelli inseriti nella bozza programmatica consegnata da Italia Viva a Fico sono un pugno nell’occhio del M5s come il ricorso al Mes e la marcia indietro sul reddito di cittadinanza sostituito da politiche attive del lavoro. Anche su molti altri punti bisognerebbe discuterne a lungo, perché è impossibile per la loro divisività trovare un accordo in poche ore come Fico è costretto a fare. Allora domani Renzi dirà a Fico che le linee politiche e programmatiche sono legate anche agli uomini che le hanno interpretate, e che il modo per fare passi avanti più ragionevole in così breve tempo è uno solo: mettere da parte il gruppo di persone che più le ha sposate. Conte in primis, ma non solo lui. Mettendo questo sul piatto di Fico martedì, è chiaro che la sua esplorazione sarebbe fallita e lui al massimo potrebbe chiedere a Mattarella altro tempo. A questo punto la scelta passerebbe al Colle, ed è il momento in cui quell’ombra di Draghi potrebbe davvero materializzarsi. In queste ore la partita è proprio questa: fra il Conte ter (sostanzialmente una minestra insipida e riscaldata) e il fantasma di Draghi che sta materializzandosi, a cui certamente non è insensibile l’opposizione sia pure con sfumature assai diverse al suo interno. Sono ore decisive, e sapremo presto chi dei due ce la farà.

 

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