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Il destino di Conte è legato a Bonafede e al suo giustizialismo

Riccardo Mazzoni
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Esattamente un anno fa il ministro Bonafede sentenziò in diretta tv che in Italia gli innocenti non finiscono mai in carcere. Una dichiarazione incredibile, viste le ingenti somme sborsate ogni anno dallo Stato per risarcire le ingiuste detenzioni, ma è ancora più incredibile che l’avvocato-dj Fofò, fiorentino d’adozione come il suo sodale Conte, sia ancora il Guardasigilli di una grande democrazia.

La politica giudiziaria degli ultimi due anni è stata totalmente prona allo strapotere delle procure, con il fiore all’occhiello della prescrizione cancellata che ha stravolto il principio costituzionale del giusto processo. Il caso ora ha voluto che proprio Bonafede, con la sua relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, sia la prima prova del fuoco per il premier dopo la fiducia stentatissima ottenuta martedì al Senato, perché sarà difficile trovare potenziali transfughi del centrodestra disposti a metterci la faccia per salvare la pelle al più implacabile nemico del garantismo. Intendiamoci, tutto è ancora possibile, se Conte non deciderà di dimettersi prima: astensioni in extremis e assenze strategiche potrebbero fare il miracolo, ma intanto anche senatori appena imbarcati come la signora Mastella o vecchie volpi della maggioranza come Casini hanno già annunciato che non potranno approvare la relazione. Certo, Italia Viva ci ha già ripensato una volta, a maggio, schierandosi contro la mozione di sfiducia individuale dopo aver minacciato fuoco e fiamme, e ieri Rosato ha lasciato aperto uno spiraglio. Ma quale occasione più ghiotta per mettere fuori gioco in un colpo solo Bonafede e Conte, costringendolo finalmente a salire al Quirinale? Vedremo.

Una certezza comunque c’è: il ministro potrà anche ricorrere alle più spericolate acrobazie verbali per correggere la rotta, ma pretendere di fargli imboccare la strada del garantismo sarebbe come sperare che Dracula rinunci a succhiare il sangue alle vittime. Basta leggere la riorganizzazione del sistema giudiziario presentata dagli uffici del ministero per il Recovery Plan, che prevede il giudice monocratico nei processi di appello, un altro durissimo colpo ai diritti della difesa. Di motivi per bocciare Bonafede ce ne sono dunque mille: in due anni e mezzo da ministro ha perso ad uno ad uno i suoi principali collaboratori, dal capo dell’Ispettorato, al direttore del Dap dopo lo scandalo della scarcerazione dei mafiosi, fino al fidatissimo capo di gabinetto Baldi. Via Arenula sembra insomma il Campidoglio a gestione Raggi, visto che sono cadute di continuo teste eccellenti, e l’unica che per ora ha retto è proprio la sua, anche di fronte ai colpi più duri, come quello velenoso scagliatogli contro dall’eroe del pantheon grillino, il pm Di Matteo, e come la scarcerazione causa Covid di più di 400 detenuti ad alta sicurezza.

Bonafede si fa scudo dello Spazzacorrotti, la legge più liberticida mai approvata. Abolita la prescrizione, da lui salutata come «una conquista di civiltà», gli alleati per salvarsi la faccia gli avevano chiesto tempi certi per la riforma del processo penale, che invece è in alto mare, mentre quella proposta per il Csm dopo lo scandalo Palamara è una toppa peggiore del buco perché doppio turno e ballottaggio rafforzano lo strapotere delle correnti. Bonafede, insomma, è stato e resta il perfetto emblema della sottomissione della politica alla magistratura. Conte gli deve l’investitura a premier, ma ora la figura ingombrante del suo principale sponsor politico rischia di costargli cara. Lo mollerà prima delle nemesi?

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