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Luigi Di Maio è diventato grande, ora sembra un democristiano: "Raggi? Meglio non fossilizzarsi"

Francesco Storace
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Arnaldo Forlani ha trovato il suo erede in Luigi Di Maio. Il primo amava dire ai giornalisti di essere capace di parlare per due ore senza far capire nulla. Al secondo bastano pochi minuti da Lucia Annunziata per dire tutto e il suo contrario e lasciando una serie di punti interrogativi dietro di sé. 

Oggetto del compitino che si era prefissato, Virginia Raggi, e la sua permanenza in Campidoglio. Di Maio sa quanto sia indigesta la sindaca dentro e fuori il Movimento, ma non può dirlo apertamente, soprattutto al Pd. E fa la mossa che può sparigliare. Con un colpo di teatro – anche se in tv – ha messo un po’ di fibrillazione nei vari ambienti politici che fanno capo alla maggioranza di governo. “Non fossilizziamoci sui nomi, come la Raggi a Roma ma anche Sala a Milano. Per me Virginia ha lavorato bene in Campidoglio”. Dunque, perché non sostenerla? 

E siccome non parliamo di un giovanotto che non abbia ancora capito com’è la politica, è evidente che Di Maio si è accomodato sulla poltrona offertagli dalla Annunziata per vedere l’effetto che fa. Della Raggi non gliene frega assoltuamente nulla, semplicemente vuole usarla per il suo risiko legato alla spartizione 2021. È diventata ormai l’unica maniera per non veder sparire consiglieri comunali a frotte dal Movimento.

La palla è così lanciata nella curva del Pd e non è certo un favore a Nicola Zingaretti, che ha un partito abbastanza in rivolta contro la numero uno del Comune di Roma. E qualunque segnale favorevole alla sua riconferma comporterebbe un fracasso enorme dalle parti del Nazareno.

Ma il segnale di Di Maio pare evidente al tavolo della politica. Dopo la condanna della Appendino a Torino, l’unica carta rimasta in mano nelle città ai pentastellati è proprio Roma. “Non posso rinunciare alla Raggi”. E il non detto è: se proprio la devo mollare, mi dovete pagare assai per fare un’alleanza in tutto il territorio nazionale. Non solo Forlani, ma anche un pizzico di Mastella. 

Il Palazzo – non c’è dubbio – ha trasformato i rivoluzionari da operetta. Partiti con il rifiuto delle alleanze con i partiti, ne hanno cambiate due opposte – prima con la Lega e poi con il Pd – e adesso teorizzano quella strutturale con la sinistra. Ed è il motivo per cui in molti hanno smesso di votarli.

In un castello debole e soggetto a mille spinte correntizie, anche per il Pd rischia di aprirsi un conflitto niente male. Perché a tirare bordate contro un’alleanza con i Cinque stelle è Carlo Calenda, che li cecchina ogni giorno, figurarsi se dovessero riproporre unitariamente proprio Virginia Raggi. Calenda comincia a piacere a molti esponenti di sinistra e potrebbe rappresentare un grande problema per Zingaretti e soci. Figurarsi se Matteo Renzi non ci si infilerà a pesce.

Per Di Maio, invece, la soluzione è normalizzare tutto. Del resto, non era proprio Zingaretti a teorizzare che nel governo dobbiamo starci da alleati e non da avversari? Bene, cominciamo dalle comunali. Ognuno sostenga i candidati dell’altro. E se proprio deve sacrificare il Campidoglio c’è da scommettere che Di Maio abbia in canna il colpo successivo: allora, caro Nicola, facci votare assieme anche per la regione Lazio e ci prendiamo quella, magari con l’arcinemica di Virginia, Roberta Lombardi. Per la Raggi un posto da sottosegretario lo rimedieranno. Si torna indietro, come al gioco dell’oca.

Sennò, che cosa vuol dire “non fossilizzarsi su qualcuno” se non essere pronti a rapidi scambi di poltrone? O mi lasciate quello che è mio o mi date qualcosa di equivalente. Come diceva Di Battista: Cinque stelle come l’Udeur. Ci siamo vicini.

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