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Zone rosse: date, regole, carte. Tutte le risposte che Conte non dà

Carlantonio Solimene
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Sono tante, troppe, le domande a cui ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dato risposte troppo vaghe ed errate a proposito della pubblicazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico. Documenti da cui risulta ufficialmente quello che informalmente era già noto. E cioè che gli esperti che collaboravano con il governo avevano auspicato, già dal 3 marzo, l’istituzione della zona rossa nei Comunti bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro, protagonisti in quei giorni di una impennata di contagi da Coronavirus.

Quel provvedimento, che sembrava sul punto di essere applicato due giorni dopo, il 5 marzo, quando alcune centinaia di militari e agenti della polizia erano giunti sul posto per «cinturare» la zona, in realtà non arrivò mai. E tutte le giustificazioni date ieri sera da Giuseppe Conte - nonché il rimpallo di responsabilità con la Regione Lombardia - traballano sotto i colpi di una serie di fatti ai quali Palazzo Chigi non riesce a opporre una narrazione efficace.

Le perplessità riguardano innanzitutto cosa sapesse sul serio Giuseppe Conte di quello che stava succedendo nel bergamasco. Perché, stando a quanto svelato dal "Corriere della Sera", quando il premier viene interrogato a Palazzo Chigi dalla pm di Bergamo Maria Cristina Rota, il 12 giugno scorso, risponde di non aver mai visto il verbale della discordia. Ieri sera, invece, ha offerto ancora un'altra versione, sostenendo di aver appreso di quella documentazione il 5 marzo, due giorni dopo, e solo allora di aver chiesto un approfondimento al Cts. Che fu prodotto, a suo dire, già la notte del 5 e al quale seguì una riunione il 6 in Protezione civile e, infine, il Dpcm del 7 marzo che rese "zona rossa" tutta la Lombardia.

Due ricostruzioni diverse tra loro che, peraltro, cozzano con quanto dichiarato dallo stesso presidente del Consiglio in un’intervista rilasciata al "Fatto quotidiano" agli inizi di aprile. Parole che vale la pena riportare integralmente: «La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri Comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia. Una situazione ben diversa da quella che ci aveva portato a cinturare i comuni della Bassa Lodigiana e Vo’ Euganeo. Chiedo così agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto».

Conte, quindi, poteva anche non aver ricevuto direttamente il verbale, ma era stato messo tempestivamente a conoscenza del suo contenuto, già il 3 marzo, al punto di chiedere un approfondimento. Ma c’è un altro aspetto che emerge dalle sue risposte. Il premier sostiene infatti che con il decreto del 7 marzo entrò in vigore la "zona rossa" in tutta la Lombardia. Ma non è vero. Perché il provvedimento in oggetto trasformò la regione semplicemente in zona «arancione». Non si tratta di una mera distinzione nominale. Perché rispetto a quanto avvenuto a Codogno e Vo’ Euganeo fin dal 22 febbraio (quelle, sì, zone rosse, con chiusura di tutte le «attività produttive non necessarie»), nel bergamasco si continuò sostanzialmente a lavorare come se nulla fosse fino a quando la sospensione pressoché totale delle attività non fu imposta anche nel resto d’Italia, il 22 marzo. Ben 19 giorni dopo l’allarme lanciato dal Comitato Tecnico Scientifico.

Perché la situazione fu presa così sottogamba? Mistero. Eppure non si può dire che nei casi immediatamente precedenti il governo avesse traccheggiato. Passano appena 24 ore tra la scoperta del «paziente 1» a Codogno e l’istituzione della zona rossa intorno al paese del Lodigiano. A dimostrazione che, anche grazie allo stato d’emergenza entrato in vigore dal 31 gennaio, i mezzi per intervenire tempestivamente c’erano tutti.

Non solo: in altre circostanze il governo ha poi addirittura agito con eccesso di prudenza, andando ben oltre le stesse raccomandazioni del Comitato Tecnico Scientifico. Che il 7 marzo auspicava ancora una chiusura solo di alcune zone dell’Italia mentre 48 ore dopo il governo decise di estendere il lockdown a tutto il Paese. Un eccesso di zelo che forse è stato pagato dal punto di vista economico, ma sicuramente ha aiutato il Sud e il Centro d’Italia a minimizzare l’impatto dell’epidemia sulle strutture sanitarie. Ecco: perché in quel caso si sacrificò il Pil per la salute e la stessa cosa non venne fatta ad Alzano Lombardo e Nembro?

Resta, infine, l’aspetto dei troppi omissis ancora opposti dal governo su parte dei verbali. Se è vero che la situazione era inedita e gli scenari cambiavano di continuo e che, per questi motivi, il governo merita tutte le attenuanti del caso, perché non procedere a una vera operazione trasparenza che permetta di giudicare una volta per tutte cosa è stato fatto di sbagliato? Non tanto - o non solo - per attribuire responsabilità. Ma anche per fare in modo che simili errori non si verifichino in un futuro che tutti sperano sia il più lontano possibile. Un obiettivo che non si può derubricare a semplice "giochino" come Conte ieri sera ha infelicemente definito le domande sulla questione.

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