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Le sardine a forza di pretendere finiscono per sognare l'Urss

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Riccardo Mazzoni
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Quando le Sardine sono comparse sulla scena, lo hanno fatto all'insegna della mitezza rassicurante. Una sorta di epifania buonista, insomma, che pur nascendo come fenomeno di piazza ha subito decodificato i codici sessantottini della protesta ripudiando ogni forma di violenza fisica e verbale, nel tentativo di incarnare il mood di una generazione che preferisce i modi garbati alle grida e ha scelto di sussurrare ai potenti il suo malessere rifuggendo ogni tentativo di entrare un giorno nei Palazzi del potere. Una mobilitazione sociale a metà tra un raduno di boy-scout e la compostezza dei primi gilet gialli. Per approfondire leggi anche: Selvaggia Lucarelli difende Salvini a umilia la leader LGBT Ma di buone intenzioni è lastricato anche l'inferno, e sono bastate poche settimane di trionfale marcia mediatica per mettere a nudo tutte le contraddizioni di un movimento che fa politica pretendendo però di presentarsi con la purezza di chi ne sta lontano. Pretesa subito smentita dalla partecipazione del suo leader, Mattia Sartori, ai comizi di Bonaccini e dalla massiccia presenza a San Giovanni di un multiforme e stagionato arcipelago di sinistra-sinistra, seguita dall'apoteosi della prima riunione nazionale in un centro sociale okkupato. Che le Sardine siano «progressiste», è ormai stranoto, e chi dice che sono un movimento indipendente fa un esercizio ipocrita. C'è però un aspetto finora trascurato che merita invece una forte sottolineatura, e non sta tanto nell'anomalia di aver individuato come totem da abbattere il leader dell'opposizione, quanto in un verbo che abbonda nel manifesto programmatico: «pretendere». La pretesa di pretendere è da sempre una fucina di aforismi negativi, tipo «le grandi pretese nascondono sempre piccoli progetti», «è una pazzia non seconda a nessuno avere la pretesa di correggere il mondo», oppure «il prepotente meno sopportabile è quello che pretende anche l'applauso». Invece le Sardine pretendono tutto: Sartori, sostiene ad esempio di voler rappresentare non il 25, ma il 99 per cento degli italiani, e annuncia nuove iniziative di piazza per «liberare la creatività, valorizzare l'arte e favorire l'interazione fisica tra i corpi», immagine questa dal sapore vagamente casaleggiano. Ma sono i primi quattro punti a suscitare perplessità, iniziando tutti con un perentorio «pretendiamo»: che chi è stato eletto vada nelle sedi nelle istituzionali a lavorare; che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali; che ci sia trasparenza nell'uso che la politica fa dei social network; e, dulcis in fundo, che il mondo dell'informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti. Ora, a parte l'anatema ad personam contro Salvini, preso di mira perché stava poco al Viminale, il comandamento secondo cui chi ha incarichi di governo dovrebbe comunicare solo attraverso le veline istituzionali è, appunto, una pretesa del tutto assurda, perché significherebbe tornare ai metodi dell'Urss, quando il governo aveva una sola voce: l'agenzia Tass. Ma le Sardine non hanno evidentemente ancora studiato la glasnost e, anzi, imponendo alla stampa di tradurre «fedelmente» i loro messaggi, forse non si rendono conto del sapore autoritario di quest'ultima, incauta pretesa. Chi decide, infatti, se un articolo è «fedele»? Il capo-sardina o un novello e grottesco Minculpop? La storia insegna che «fedeltà» della notizia fa troppo spesso rima con omologazione, e stupisce che questa pretesa arrivi proprio da chi si propone come un campione di democrazia mite. Come dimostra l'altra genialata, ossia la proposta di sanzionare in modo uguale violenza verbale e fisica, perché le parole «fanno male come i gesti»: una manna per i picchiatori di ogni colore.

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