Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Affonda la speranza. Morti trecento immigrati a Lampedusa

Benvenuti in Italia. Il Paese che avrebbe potuto salvarvi, vi sta seppellendo. Un po' in terra, il resto in mare. Benvenuti all'inferno

  • a
  • a
  • a

Benvenuti in Italia. Il Paese che avrebbe potuto salvarvi, vi sta seppellendo. Un po' in terra, il resto in mare. Benvenuti all'inferno. La più grave strage di migranti dal dopoguerra, quella che potrebbe chiudersi con un bilancio finale di 350 tra morti e dispersi, è un pugno allo stomaco di chi ancora parla di superiorità del mondo occidentale e di virtù e di carità cristiana. Oggi, c'è da provare immensa vergogna. E basta. Vergogna per quella che continua ad essere la tratta di esseri umani, la compravendita della speranza, la fiera dell'illusione che si esercita a poche decine di miglia marittime dalle nostre coste. Misfatti che nessuna legge, nessun accordo politico-militare, nessun provvedimento di contenimento riescono ad arginare. Col risultato finale che a rimetterci la pelle sono gli anelli ultimi della catena, quelli che scappano, braccati dalla disperazione, dalla fame, da regimi infami. Stavolta è stato pure peggio, e non solo per le dimensioni del dramma. Stavolta è stato peggio perché nessuno potrà dire di non aver saputo, di non aver visto, di non essersi accorto. Da oggi, Lampedusa è una nazione a sé. La tragedia si è consumata in pochi minuti. Non ci sono stati messaggi di sos dal barcone sgangherato che ha sfidato le onde del Mediterraneo gravido di cinquecento anime in cerca di un pezzettino di dignità, in fuga dagli orrori della povertà, della guerra, della storia di mondi lontani e malvagi. Non c'erano cellulari né radiotrasmittenti a bordo. Per segnalare la posizione, hanno pensato di fare un po' di fuoco e di fumo. Come gli indiani d'America. L'sos, era per dire. «Guardateci, noi siamo qui, venite a prenderci». Lampedusa, prime ore del mattino di ieri. Un barcone stracarico di poveracci, donne, vecchi, bambini. Le fiamme divampano in un attimo e l'imbarcazione perde l'equilibrio sulle onde. Uomini e donne, terrorizzati dalle fiamme che divorano legni, stoffe e taniche di carburante, cercano rifugio nell'elemento contrario: l'acqua. Torce umane, tizzoni incandescenti e urlanti. E lì, nel mare, nella stiva, trovano la morte. Orrenda, assurda, incomprensibile, ingiustificabile. Il natante viene sconquassato dai movimenti e dagli spostamenti improvvisi dei migranti. Molti si tuffano in mare, tanti altri fanno dondolare sulla spuma il barcone finché non si capovolge. Il legno galleggiante affonda con la pancia piena ancora di poveri cristi che non hanno avuto il tempo di uscire allo scoperto. È una bara che si scava la fossa da sola, andandosi ad adagiare sul fondo del mare, fendendo l'acqua, portandosi dietro, uno dopo l'altro, passeggeri senza nome e senza speranza. Si dice che tre pescherecci, pur passando nelle vicinanze, abbiano tirato dritto, senza fermarsi. Se l'hanno fatto, ci penserà Nettuno o il Padreterno a giudicare quelli che erano a bordo e a punirli, se necessario. I pescatori negano, i superstiti insistono. Per fortuna, la macchina dei soccorsi si è attivata in tempi rapidissimi. Alcune diportisti sono partiti dal molo vecchio, dopo aver notato l'alta colonna di fumo levarsi tra i marosi, immaginando che si trattasse di un'avaria in mare. Un motore in panne, o un guasto meccanico. «Ci siamo ritrovati scaraventati in un girone infernale", parla con la faccia stravolta dal dolore e dalla fatica un pensionato siciliano, supertestimone dell'orrore, che passa l'ultima settimana di settembre e la prima di ottobre da queste parti perché è un appassionato di pesca a traino. Solo che, stavolta, invece di tonni e ricciole ha dovuto tirar su una ventina di esseri umani infreddoliti e impauriti che piangevano e parlavano una lingua che veniva dai confini del pianeta terra. E, in tanta disperazione e tanto dolore, sembra di sentir tuonare il verso di Dante che ammonisce: "Qui non ha loco il Santo Volto!". Non c'è pietà umana, non c'è speranza a queste latitudini. È tutto finito nell'abisso, non c'è più nulla che si possa salvare dopo una tragedia immane. Duecento sono i dispersi che ancora mancano all'appello. Centoventisette i morti accertati; i cadaveri sono stati recuperati dal mare e sistemati in sudari di plastica sul molo. Centocinquantacinque sono quelli sopravvissuti, per lo più profughi somali ed eritrei. A vederli, sembrano morti che camminano ma che ancora respirano. Fanno una gran tenerezza, imbacuccati in giubbotti di fortuna, in fila indiana, mentre camminano accanto a connazionali, amici, parenti. Tutti morti. I vivi hanno la faccia spaurita, gli occhi che roteano alla ricerca di qualcosa che non troveranno mai. Un punto d'appoggio, un volto sereno, una mano calda. Un paio di soccorritori gli vanno incontro e li abbracciano. Ma quelli che cercano calore, in questo momento, non sono i migranti. Sono gli italiani. Oggi sarà lutto nazionale, ma sarà anche il giorno delle polemiche e delle strumentalizzazioni politiche. L'unica vergogna che non riesce mai ad inabissarsi, nemmeno per un giorno. Ci sarebbe, addirittura, anche un indagato per omicidio plurimo. Eccola, la giustizia degli uomini che cerca di anticipare quella divina. Ma non è aria. Non è con gli articoli e le pandette del codice penale che si può definire, inquadrare una catastrofe del genere: l'uomo ha detto di essere stato in passato uno scafista e di aver fatto sbarcare, sotto la minaccia non si sa di chi, un bel po' di gente a Lampedusa nell'aprile scorso. È un tunisino di 35 anni che gioca, forse, a fare il furbo. Dice che, a questo giro, era un passeggero. I pm non gli hanno creduto e, per quel che può valere, lo hanno messo sott'inchiesta. Lo specchio d'acqua a mezzo miglio a sud dell'Isola dei Conigli ancora nel pomeriggio è stato ammorbato dalla puzza di nafta. Lì incrociano da ora decine di motovedette della guardia costiera, della capitaneria di porto e della guardia di finanza. Pattugliano un'area di mezzo chilometro quadrato alla ricerca di segnali di vita. Ma i miracoli ieri sono stati merce rara in terra siciliana. Una ragazza era stata creduta morta, dopo essere stata ripescata tra gli altri cadaveri galleggianti. L'avevano appoggiata sul molo, in attesa che arrivassero da Porto Empedocle la bara di zinco dove lasciarla riposare. Poi qualcuno si è accorto che respirava ancora. Ora è ricoverata in rianimazione all'ospedale di Palermo insieme a due altri uomini. L'elicottero, intanto, non ha smesso un attimo di sorvolare l'isola per aiutare le motovedette a localizzare più velocemente i resti del relitto e i corpi affiorati in superficie. «Oggi, non ci sono ambulanze ma solo carri funebri», ha detto sconsolato il capo della task force che si è occupato del trasferimento dei cadaveri nell'hangar dell'aeroporto. Dove i primi posti sono per i corpicini di quattro bambini. Povere creature. Anime innocenti. Pregate per loro. Benvenuti in Italia.

Dai blog