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Gli attacchi al Prof dimostrano la paura del Pd

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Eche a farlo sia stato ieri il giornale storico di quello che fu il Pci ed è da poco più di cinque anni il Pd, cioè l'Unità, la dice lunga sullo stato di confusione, o addirittura di disperazione, che si è creato a sinistra per la discesa in campo di Monti. O come altro il capo del governo preferisce o preferirà chiamare il suo impegno politico ed elettorale, visto che il ministro Andrea Riccardi anche dopo avere partecipato a Palazzo Chigi, in compagnia di Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa e Luca Cordero di Montezemolo, a un incontro apposito con lui ha precisato che il presidente del Consiglio non si riconosce in questa immagine sportiva. Forse per l'abuso che se n'è fatto con Silvio Berlusconi. È stato proprio a quell'incontro che si è richiamato il giornale del Pd per criticare pesantemente il presidente del Consiglio accomunandolo, per presunta disinvoltura, a un Ingroia che all'ultimo momento si è precostituito al Consiglio Superiore della Magistratura le condizioni per sciogliere oggi la riserva con i promotori delle liste della sinistra arancione. Che lo aspettano a braccia aperte, alcuni a toghe già dismesse, per conferirgli i gradi di comandante. E investire così nella campagna elettorale la notorietà e quant'altro procuratisi dall'ex procuratore aggiunto di Palermo con un uso così controverso delle sue prerogative e qualità professionali da procurarsi un ricorso del presidente della Repubblica alla Corte Costituzionale. E un verdetto negativo liquidato come «politico» dal soccombente, improvvisamente emulo del tanto odiato Cavaliere nel giudizio sul supremo organo di garanzia. Supremo rispetto persino al presidente della Repubblica, di cui può respingere i ricorsi, e non solo accettarli, bocciarne indirettamente le valutazioni quando decapita una legge da lui promulgata, com'è accaduto nel caso del cosiddetto lodo Alfano sul contestato scudo giudiziario temporaneo dei presidenti del Consiglio e delle Camere, e sanzionare penalmente la condotta. Se le Camere «in seduta congiunta», e «a maggioranza assoluta dei suoi membri», lo dovessero mettere «in stato d'accusa per alto tradimento o attentato alla Costituzione», come dice l'articolo 90 della carta costituzionale. Tutto questo si ricorda per dare la misura dell'enormità della reazione di Ingroia come magistrato alla Corte che ha osato, evidentemente, dargli torto. Accomunare a questo punto presunti o reali errori di «stile» di Monti e di Ingroia, solo perché sono entrambi alle prese con un problema di partecipazione alla competizione elettorale, è a dir poco un'autentica provocazione. Ma di che cosa poi si sarebbe macchiato il presidente del Consiglio occupandosi del proprio coinvolgimento elettorale nel suo ufficio di governo, come gli ha rimproverato il giornale del Pd? Quasi che il problema fosse stato quello del luogo del suo incontro, e non l'incontro in sé. Cioè, la concretizzazione di uno scenario politico che ha sconvolto i piani del e nel Pd. Dove gli umori veri rimangono quelli anticipati da Massimo D'Alema definendo giorni fa «moralmente discutibile» la scelta in arrivo di Monti. Quello a Palazzo Chigi è stato un incontro, peraltro, proprio per il luogo prescelto, e in pieno giorno, di una trasparenza a dir poco lodevole. Specie in un mondo come quello della politica, in cui si sprecano l'occulto e l'ipocrisia. E in un partito in cui, quando si trattava di rovesciare Berlusconi, si faceva finta di non vedere le riunioni organizzate, a quello scopo, nell'ufficio del presidente della Camera. Via, cerchiamo di essere una volta, e finalmente, seri. E onesti.

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