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Il Pd vuole il Professore al Colle ma...

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L'anomalia del governo tecnico di Mario Monti sta anche nel fatto che ad un anno dalla sua formazione il bilancio che risalta di più agli occhi riguarda i cambiamenti politici da esso prodotti, piuttosto che i contenuti dei pur rilevanti provvedimenti adottati sotto l'incalzare della crisi economica e finanziaria ereditata il 16 novembre del 2011. Il giorno in cui il professore, fresco del laticlavio conferitogli dal capo dello Stato, fu nominato presidente del Consiglio succedendo a Silvio Berlusconi, convinto alle dimissioni dallo scatenamento della speculazione internazionale contro i titoli del debito pubblico.Il giorno in cui il professore, fresco del laticlavio conferitogli dal capo dello Stato, fu nominato presidente del Consiglio succedendo a Silvio Berlusconi, convinto alle dimissioni dallo scatenamento della speculazione internazionale contro i titoli del debito pubblico.Il quadro politico del governo è radicalmente cambiato in questo suo primo anno di vita un po' per gli effetti delle misure anticongiunturali, e necessariamente dolorose, adottate e un po' per il modo in cui il presidente del Consiglio ha saputo e voluto gestire i suoi rapporti con una maggioranza da lui stesso definita «strana» sin dal primo momento. Una maggioranza che non poteva, del resto, essere diversa per la vera e propria emergenza dalla quale nasceva, cinicamente ignorata da chi imboccò subito la strada dell'opposizione e disinvoltamente dimenticata da chi ha poi cominciato a dissociarsi. Egli ha in fondo concesso ai vari partiti dai quali ha riscosso la fiducia parlamentare molto meno di quanto sia apparso con i cambiamenti che pure ha dovuto via via apportare ai suoi decreti e disegni di legge, con trattative laboriosissime, spesso risolte più o meno dietro le quinte da quel sapiente e ostinato regista che si è rivelato il presidente della Repubblica Napolitano. Il fatto che Monti abbia più imposto la sua logica che subìto quella degli altri, poco importa se dettata - quest'ultima - da esigenze più tattiche che strategiche, o viceversa, risulta evidente dalla fretta con la quale gran parte della maggioranza formalmente ancora in piedi vuole liberarsene e dalla volontà di un'altra, minoritaria nelle aule parlamentari ma forse non nel Paese, di tenerselo ben stretto anche nella prossima legislatura. Magari alla guida di un governo questa volta più politico che tecnico, e con una maggioranza più convinta e coesa di quella improvvisata l'anno scorso. Alla guida, ripeto, di un altro governo - quello felicemente definito ieri «di ricostruzione» da Luca Cordero di Montezemolo nel discorso del suo sostanziale esordio politico - e non al Quirinale, come successore di Napolitano. Del quale purtroppo scadrà a metà maggio dell'anno prossimo il mandato, senza che nessuno sia riuscito, almeno sinora, a smuovere «Re Giorgio» dal rifiuto di sentire solo parlare, alla sua età e dopo sette anni, di una rielezione. Vorrebbero, in particolare, mandare Monti al Quirinale, pur tra qualche contrasto più o meno visibile per ambizioni maturate all'ombra delle vecchie e infelici edizioni prodiane dell'Ulivo e dell'Unione, quelli della sinistra. O del centrosinistra, come troppo disinvoltamente si chiamano o chiamano la loro coalizione, dove la sinistra conta sotto tutti i punti di vista, a cominciare da quelli numerici, molto più del centro. Sono quelli, da Pier Luigi Bersani a Nichi Vendola, che sentono di avere già la vittoria elettorale in tasca grazie allo sfaldamento del centrodestra guidato e impersonato per diciotto anni dal Cavaliere, smaniano di succedere all'attuale presidente del Consiglio strapazzandone o rottamandone la cosiddetta «agenda», ma sono consapevoli della diffidenza che suscitano all'estero, dove ormai si decide della nostra economia più che da noi per la comune appartenenza all'Unione Europea. E vorrebbero perciò supplirvi insediando al Quirinale l'affidabilissimo Monti. Che però da presidente della Repubblica - e penso che lui sia il primo a rendersene conto, anche per la pratica politica che gli è toccata di fare in questo primo anno di governo - si troverebbe a tentare un'avventura ancora più difficile di quella attuale, diciamo pure impossibile. Egli dovrebbe prestarsi a coprire l'incopribile, se si può dire. Dovrebbe compromettere sul piano internazionale la cosa che ha saputo fare meglio e di più, negli ultimi tempi a vantaggio anche del Paese: la sua immagine. Monti al Quirinale dovrebbe, per esempio, tollerare ciò che anche Napolitano, a dire il vero, ha dovuto ai tempi dell'ultimo Prodi: lo spettacolo, giustamente ricordato ieri da Luca di Montezemolo, di ministri - nominati, ricordiamocelo, dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio - che scendono in piazza a dimostrare con la Cgil e altre organizzazioni contro i provvedimenti adottati dal loro governo. E di questi provvedimenti, anche i più clamorosamente contrari a quelli da lui presi come presidente del Consiglio e approvati dal Parlamento, ma soprattutto contrari agli interessi del Paese e ai suoi impegni internazionali, dovrebbe ingoiare alla fine il contenuto, a meno di sue clamorose dimissioni e della conseguente esplosione di una crisi istituzionale. Che sarebbe forse ancora più grave di quella economica e finanziaria che ci affligge. Nella gestione, o co-gestione, di simili provvedimenti, dietro le quinte della famosa persuasione morale del presidente della Repubblica, o anche sul palcoscenico di un loro rinvio alle Camere per l'ulteriore deliberazione prevista dalla Costituzione, per non parlare della firma che gli è richiesta per la presentazione di un disegno di legge del governo al Parlamento, il povero Monti non si troverebbe di certo nella posizione di Napolitano. Al quale i partiti, a cominciare dal suo, quale può considerarsi per i trascorsi comunisti il Pd, anche se non ha potuto materialmente iscriversi perché nato quando già lui era al Quirinale, hanno concesso spazi di iniziativa, o di resistenza, impensabili per uno come l'attuale presidente del Consiglio. Che non ha alle spalle nessuna militanza politica vera e propria, e conseguente solidarietà. E rifugge ad assumerne una oggi, per quanto corteggiato da uno schieramento che va da Luca di Montezemolo a Pier Ferdinando Casini passando per Gianfranco Fini e tanti altri. Uno schieramento che prima delle elezioni del 10 marzo, se sarà veramente quella la data anche del rinnovo delle Camere, non solo delle regioni in sofferenza, dovrà decidersi ad unirsi. E dal quale ciò che resta del Pdl si ostina a tenersi fuori, e lontano, continuando a guardare alla Lega, per una incredibile vocazione al suicidio politico.

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