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Ci sono le elezioni. La Rai congela Sanremo

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Festival organizzato dal 12 al 16 febbraio. Le elezioni previste il 17 o 24

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Talmentegaleotta che ieri è arrivata una verrina per lo slittamento del Festival di Sanremo, previsto dal 12 al 16 febbraio in diretta su Rai 1, a dopo le elezioni politiche. Con l'in verrem sanremese-televisivo stavolta non c'entra il caro vecchio Cicerone latino bensì un contemporaneo, Antonio Verro, membro del Cda della Rai, ex parlamentare del Popolo della libertà: «Credo - ha detto - che l'azienda debba cominciare a porsi il problema di una eventuale sovrapposizione tra elezioni politiche e Festival di Sanremo. Se il Festival dovesse trovarsi a cadere nella settimana delle elezioni o in quella subito precedente, io francamente sarei per un suo rinvio. Il servizio pubblico - ha sottolineato Verro - sarà infatti chiamato in quel periodo a rispettare una serie di obblighi che, nelle prossime settimane, saranno definiti più nel dettaglio dalla Commissione di Vigilanza. Occorre rapidamente prendere una decisione perché c'è il rischio da un lato di non offrire ai cittadini un'adeguata informazione in campagna elettorale e, dall'altro, di condizionare troppo il più importante spettacolo della televisione italiana». Il dado è lanciato e vediamo se sarà tratto. Sì, perché la Luciana Littizzetto, co-conduttrice già annunciata del Sanremo di Fabio Fazio, con il suo «ha rotto il cazzo» ha suscitato un vespaio e numerosi timori di partigianerie comiche e altre, soprattutto in chiave anti-Cavaliere. Così in Rai, nell'attesa che venga definita la data certa delle elezioni politiche, probabilmente il 17 o 24 febbraio, (e Verro a parte) si starebbe valutando l'opzione di slittamento del Festival della canzone italiana, in primo luogo per assolvere agli obblighi informativi di legge legati alla par condicio. Mai successo nella storia politica mondiale che una gara di cantanti si portasse appresso tutte queste cautele e titubanze sul farla prima o dopo il voto, per ragioni di pluralismo. Ché le canzoni d'amore son di destra e quelle sociali di sinistra? Allora bisognerebbe averne in numero uguale per non condizionare gli elettori? No, niente a che vedere con i gorgheggi e le ugole. Due sono gli aspetti al centro di questa vicenda italiana: il primo, la par condicio, una legge assurda, da contagocce dell'etere per minuti e presenze delle diverse formazioni politiche sotto elezioni. L'altro, il secondo, il Festival che da diversi anni è qualcosa di profondamente diverso da una gara canora. È uno show, forse l'unico grande show nazionalpopolare che resiste della vecchia televisione, con dentro varietà, satira, costume, emozioni e - in fondo - pure musica. È il trionfo del pop sui cineforum da film impegnato, la messa in scena che anticipa la messa in campo, sia che preveda un Benigni a cavallo o una grande guest star straniera. Per questo il Festival potrebbe slittare: perché nel suo non essere più se stesso è terribilmente politico, fuor dalla canzone ma dentro l'Italia e gli italiani. Che sia scaturito tutto dall'inciampo linguistico di una parolaccia, cazzo, preceduta da un «hai rotto», è segno dei tempi. E mentre Giorgio Merlo (Pd), vicepresidente della Commissione di Vigilanza della Rai, si preoccupa e si interroga sui cachet di Fazio & Littizzetto e la Rai attende la data delle politiche, ciò che conta è la metamorfosi del festival: non più della canzone, che accompagnava il mutamento del Paese, ma un misto e impasto di vita, facce, comici, libertà e musica, un imbastardimento lento, che spesso i cambiamenti li anticipa o li asseconda. Perché come cantava Manfredi, echeggiando Petrolini: «Pe' fà la vita meno amara / me so' comprato 'sta chitara / e quanno er solo scenne e more / me sento 'n core cantatore».

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