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Rinunciare sarebbe soltanto un gesto di resa

Le Frecce Tricolori sorvolano piazza Venezia durante i festeggiamenti del 2 Giugno per la Festa della Repubblica

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Sono comprensibili le ragioni di chi avrebbe voluto non celebrare il 2 giugno. Si tratta di una reazione emotiva. Testimonia timore per il futuro e quasi una rinuncia a lottare. Quasi un rifiuto della normalità della vita fatta di gioie e di lutti. È l'immagine di chi è ripiegato su se stesso, incapace di rialzare la testa. Uno spirito ben diverso invece ha animato un Paese che non si è lasciato piegare dalla guerra. Che ha costruito sulle macerie dei bombardamenti, con le lacerazioni della guerra civile e il lutto per i morti. Eppure è stato capace di rinascere, di prepare il boom economico senza rinunciare a Sanremo o a miss Italia. Un Paese capace di curare le ferite e di sognare, lavorando per realizzare il sogno. Nonostante la crisi, la peggiore degli ultimi 100 anni, viviamo meglio dei nostri nonni. Certo oggi è un giorno di lutto. Ci sono morti sotto le macerie in Emilia. Ci sono fabbriche distrutte, migliaia di persone senza casa. È un impegno per tutta l'Italia intervenire in modo solidale. Offrire aiuto perché in Emilia come in Abruzzo siano destinati i fondi necessari per ricostruire, per far tornare quelle località alla normalità. Ma può farlo una Nazione con la schiena dritta, che sa asciugare le lacrime in fretta, che sa capire il senso della vita, che non è quello della tristezza e della rassegnazione. Il 2 giugno è la nostra festa. La festa della nuova Italia nata in quel 2 giugno del 1946. Un anno dopo la fine della guerra nasceva la Repubblica, si eleggeva la Costituente. Prendeva forma l'Italia che conosciamo. Quella data è un simbolo e sempre più deve rappresentare il punto fermo per una memoria condivisa. Celebrare non è mancare di rispetto al dolore. Ma riaffermare il valore dell'unità di una Nazione capace di essere vicina a chi soffre senza fermarsi a piangere, ma andando avanti. Bene ha fatto Napolitano dall'alto della sua saggezza e della sua autorevolezza a spendere parole di speranza dicendo: supereremo questo momento. E ha fatto bene a dire che il 2 giugno va ricordato e celebrato, anche se in modo sobrio. Trovo invece ipocrita chi rinvia incontri e riunioni. Perché sembra quasi che se non compie gesti pubblici tema di non dare sufficientemente l'idea di essere dispiciuto. Ha bisogno di apparire. Pensate che rinviare una riunione di partito porti sollievo ad alcuno? Una forza politica semmai, proprio in un momento difficile, ha il dovere di discutere e di decidere, di contribuire al bene del Paese. Non di ritirarsi. Semmai i partiti potrebbero destinare una parte di quei soldi del finanziamento a chi soffre. Demagogia forse, ma sicuramente utile. A maggior ragione il due giugno l'Italia non deve rimanere chiusa in casa a piangere (o far finta di piangere). Invece dalla festa, dalla nostra festa deve partire un messaggio forte di speranza. A tutta la comunità e a quella parte colpita duramente dal destino. Non ci hanno piegato gli occupanti nazisti o le bombe sulle nostre città. Non ci hanno piegato i terremoti e i disastri naturali. Il terrorismo e le stragi. Siamo andati avanti. E abbiamo il dovere, per noi e i nostri figli, di andare ancora avanti. A partire dal 2 giugno, che a maggior ragione deve essere dedicato proprio a chi quel giorno lo vivrà nelle tende, oppure piangerà i propri morti. Una festa sobria e dignitosa sarà comunque il segnale che l'Italia è in piedi. Che sa piangere e lottare nello stesso tempo. E discutibili sono anche i discorsi sui soldi eventualmente risparmiati da destinare alle zone disastrate. Da quello che sappiamo si tratta di cifre insignificanti, e in parte già spese. Non potrebbero essere quattro spiccioli a risolvere i problemi dei terremotati, loro hanno bisogno di molto di più e dobbiamo trovare quelle risorse, magari tagliando i veri sprechi della macchina pubblica. Ma soprattutto dobbiamo lanciare il segnale che la vita va avanti. Che l'Italia va avanti, nonostante tutto.

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