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Bossi indagato il partito dava la paghetta ai figli

Renzo e Umberto Bossi

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La firma di Umberto Bossi sotto le operazioni illegali del tesoriere Belsito. Lo scandalo della Lega, che finora aveva solo sfiorato il Senatùr, ora conosce un nuovo livello e vede l'iscrizione al registro degli indagati del fondatore del Carroccio e dei suoi figli Renzo e Riccardo. L'accusa per Bossi padre è di truffa ai danni dello Stato per 18 milioni di euro. Si tratta dei rimborsi elettorali erogati alla Lega nell'estate del 2011 e ottenuti, secondo i magistrati della Procura di Milano, con la presentazione di un rendiconto «taroccato». Quei soldi sarebbero poi finiti nelle tasche dei figli di Bossi per finanziare spese personali. In che misura? Questo, hanno dichiarato il procuratore capo Bruti Liberati e il pm Filippini, «sarà accertato attraverso una serie di approfondimenti». Quello che emerge dalle carte in mano agli investigatori sarebbe l'erogazione di una «paghetta» a Renzo e Riccardo di 5mila euro al mese. Una circostanza che ha portato all'accusa di appropriazione indebita per i due rampolli di casa Bossi e per il tesoriere Belsito. «Finalmente potrò difendermi», ha commentato il «Trota», che non ha potuto «ricevere» l'avviso di garanzia trovandosi in vacanza in Marocco con la ragazza. A «incastrare» il Senatùr sarebbero state le dichiarazioni dello stesso Belsito e della responsabile amministrativa Nadia Dagrada. Entrambi avrebbero confermato la presenza della firma di Bossi sotto i documenti incriminati. Semplice imprudenza? Non si direbbe, almeno a leggere l'appunto del figlio Riccardo trovato nella cartelletta «The Family»che Belsito conservava nella sua cassaforte. «Ne ho già parlato con papà», era scritto in una lettera in cui poi il rampollo elencava tutte le spese da sostenere. Di che tipo? Per immaginarlo basta scorrere il contenuto di un'altra missiva resa pubblica qualche giorno fa: «Ultimo pagamento per il noleggio della Clio (981 euro)», «saldare in contanti le multe arrivate (1.857 euro)» o ancora «saldare un lavoro in carrozzeria (3.900 euro)». Tutto elencato dopo un «Grazie mille per tutto quello che fai». Le indagini dei pm milanesi non si esauriscono alla famiglia Bossi. A ricevere un avviso di garanzia, stavolta per il reato di peculato, è stato anche il senatore Piergiorgio Stiffoni, dimessosi da segretario amministrativo al Senato il mese scorso. A gennaio avrebbe dirottato su un suo conto corrente circa 500 mila euro del partito. Inoltre, risulta indagato l'imprenditore Paolo Scala (riciclaggio dei soldi che Belsito voleva investire in Tanzania) mentre i magistrati stanno vagliando le posizioni di Manuela Marrone, moglie di Bossi, e di Rosy Mauro, vicepresidente del Senato. Nel mirino i fondi che dal partito sarebbero finiti alla scuola «Bosina» (300.000 euro?) e al Sindacato Padano. Tutto qui? Non proprio, perché dall'indagine dei magistrati che si occupano del filone napoletano dell'inchiesta (Woodcock, Piscitelli e Curcio), emerge che Riccardo Bossi avrebbe usato soldi delpartito anche per pagare gli alimenti alla ex moglie Maruska Abbate. Altri 5.000 euro versati tra maggio e ottobre 2011 che arricchiscono la tempesta giudiziaria che ha investito la famiglia del Senatùr. E che non poteva non influire sul dibattito politico all'interno della Lega. Prima ancora che venisse consegnato l'avviso di garanzia al Senatur, nella sede del Carroccio in via Bellerio, Maroni aveva postato l'ennesimo diktat su Facebook. «Per faccendieri, ladri e ciarlatani non c'è posto nella Lega del futuro», uno dei passaggi principali nell'intervento di colui che si appresta a essere il candidato unico alla segreteria, tra un mese e mezzo. Tempistica casuale? Chissà. In serata il primo commento a posteriori: «Conosco Bossi da una vita e sono certo, ultra certo della sua buona fede. Avrà firmato senza pensarci i documenti che gli sottoponevano. Si faccia chiarezza in fretta».

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