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Gianni Di Capua Non c'è dubbio che fu Marcello Dell'Utri, negli anni Settanta, a fare da «mediatore», da «trait d'union», tra il suo amico e datore di lavoro Silvio Berlusconi, all'epoca solo lanciatissimo imprenditore, e cosa nostra.

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Inmaniera «corretta», rileva la sentenza, sono state valutate, dai giudici di Palermo, le «convergenti dichiarazioni» di più collaboratori sul tema «dell'assunzione, per il tramite di Dell'Utri, di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra». Provata anche la «non gratuità dell'accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore della mafia». In tutto questo, Berlusconi pagò «in posizione di vittima», sentendosi in «stato di necessità» per proteggere sé e i suoi familiari dal rischio, soprattutto, di sequestri di persona. Anche se, osservano i supremi giudici, rispetto ad altre possibili scelte, Berlusconi «risentiva di una certa, espressa propensione a "monetizzare", per quanto possibile, il rischio cui era esposto e a spostare sul piano della trattativa economica preventiva l'azione delle fameliche consorterie criminali che invece si proponevano con annunci intimidatori». In nessun caso, in questo capitolo giudiziario relativo al periodo del patto sulla protezione ad Arcore, la posizione di Dell'Utri è assimilabile a quella di «una vittima che subisce», anche lui, come Berlusconi, il ricatto mafioso. La tesi è «implausibile». Per quanto, invece, riguarda il capitolo del sostegno di cosa nostra alla discesa in campo di Berlusconi con «Forza Italia», la Cassazione concorda con i giudici di merito nel non ritenerlo sufficientemente provato e ventila la possibilità di spostare in avanti la prescrizione che altrimenti cadrebbe il 30 giugno 2014. «È infatti evidente - scrive il consigliere relatore Maria Vessicchelli in questo verdetto che "rivitalizza" il concorso esterno - che non è una regola generale quella per cui un continuativo rapporto illecito su base patrimoniale con cosa nostra, di per sé gratificata per un certo arco di tempo dalla apertura del canale privilegiato di comunicazione con l'imprenditore Berlusconi, possa avere implicato, come risposta, da parte della stessa associazione, una necessaria e naturale disponibilità al sostegno di iniziative di tipo politico, assunte dopo un ventennio dall'inizio dei primi rapporti, che il soggetto "estorto" intendeva assumere». Bocciata anche la richiesta della Procura di Palermo di dare ascolto a Massimo Ciancimino e alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, gli ultimi a parlare di rapporti tra mafia e il partito di Berlusconi, costruito da Dell'Utri con i manager di Publitalia, molti eletti in Parlamento. I supremi giudici concordano nel giudizio di inattendibilità del primo e approssimazione del secondo. Passa alla storia, convalidato dalla Suprema Corte, l'incontro diretto avvenuto nel 1974, in uno degli uffici milanesi del Cavaliere, tra i boss Di Carlo - che lo ha raccontato - Teresi e Bontade alla presenza, ovviamente, di Dell'Utri. L'esito del summit fu quello di rendere operativo l'accordo sulla protezione e inviare subito Mangano ad Arcore. Ma c'è un grosso vuoto che la Corte di Appello dovrà colmare, quello che riguarda il concorso esterno dal 1978 al 1982, quando Dell'Utri andò a lavorare con il finanziere Rapisarda. Per questi quattro anni servono prove oggettive e soggettive del fatto che il senatore continuò a favorire cosa nostra. Mentre per il periodo dal 1982 in poi, contatti con i clan ci furono, ma occorre dimostrare che l'intenzione reale di Dell'Utri era quella di aiutare la mafia e non altri o altro. Per Massimo Krogh, legale di Dell'Utri, la cosa fondamentale è che la Cassazione ha scritto che per «trenta anni di accuse di concorso esterno, dal 1978 al processo di primo grado, non ci sono prove. Tutto il resto non è importante, è solo la tendenza dei media a pescare nelle sentenze solo gli aspetti più suggestivi». Dal canto suo, Berlusconi sarebbe «sconfortato». Colpito dalle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione, il Cav si sarebbe sfogato con i suoi, convinto che dietro le fughe di notizie, le indiscrezioni, gli audio passati a siti e giornali ci siano procure che, a suo giudizio, proseguono una battaglia personale contro di lui.

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