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Mauro e Belsito espulsi. Salvo Renzo Bossi

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La vicepresidente del Senato, Rosy Mauro in via Bellerio all'uscita dalla sede della Lega Nord al termine del consiglio federale

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Passa la linea Maroni. Cartellino rosso per Rosy Mauro e per Francesco Belsito, entrambi espulsi dalla Lega. Si salva invece Renzo Bossi, nei cui confronti non si è voluto "infierire" vista la vicenda che ha colpito profondamente il "capo". Non solo: l'ex ministro dell'Interno incassa anche l'anticipazione del congresso federale, fissato per il 30 giugno e l'1 luglio (la fazione maroniana puntava, infatti, a farlo quanto prima mentre i «cerchisti», giustificandosi con le difficoltà di organizzarlo in così poco tempo, spingevano per un rinvio a luglio in modo da riorganizzarsi). Due ore di consiglio federale, un capro espiatorio e un vincitore, insomma. Non è andato tutto così liscio, però. La pulizia richiesta - e ottenuta, almeno in parte - dalla base leghista dopo la manifestazione delle «scope verdi» non è stata certo un'operazione facile, se è vero, come è trapelato, che per l'espulsione della vicepresidente del Senato dal Carroccio, Bobo avrebbe dovuto addirittura minacciare le sue, di dimissioni. «È un problema politico, di credibilità del movimento. Non posso accettare che venga delegittimata la Lega. O viene preso un provvedimento chiaro e forte o preferisco uscire dal triumvirato», avrebbe minacciato il "barbaro sognante". Poi c'è stata «l'unanimità», recita il comunicato leghista. Alla votazione finale, però, non hanno partecipato né Bossi senior, né Marco Reguzzoni, uno degli esponenti di punta del «cerchio magico», (oltre all'ex presidente del Consiglio federale Angelo Alessandri, secondo quanto riferisce la diretta interessata). Rosy la pasionaria ha lottato fino alla fine. Arrivata in automobile in via Bellerio, a differenza di tutti gli altri ha varcato il cancello d'ingresso a piedi. Per di più preceduta da "Pier Mosca", il suo caposcorta "accusato" di essere il suo amante. Alla segreteria federale ha partecipato in qualità di "uditore", non potendo esprimere un voto, ma ha voluto difendersi in prima persona e guardare negli occhi il plotone che voleva condannarla. Ha detto di no anche a Bossi. «Anch'io ho fatto un passo indietro, per il bene della Lega occorre che lo faccia anche tu», è stato il ragionamento dell'ex ministro delle Riforme. Ma niente da fare. I vertici del Carroccio hanno decretato «all'unanimità» la sua espulsione dal partito «ritenendo inaccettabile la sua scelta di non obbedire ad un preciso ordine impartito dal Presidente Federale e dal Consiglio Federale», come recita il comunicato finale di via Bellerio. Appena fuori dalla porta, Rosy tira via tutti i sassolini dalle scarpe, però. «Il rancore è prevalso sulla verità. Volevano un capro espiatorio. La mia epurazione era già scritta - attacca - Se qualcuno è arrivato al punto di minacciare le dimissioni se non si fossero presi provvedimenti contro di me, vuol dire che la presunta unanimità è stata imposta con un ricatto politico». E poi: «Valuto tutto, ma un passo alla volta», riguardo al suo futuro a Palazzo Madama. Resta infatti il nodo della vicepresidenza del Senato, carica istituzionale ed elettiva che, come tale, non le può essere revocata in alcun modo. Le indagini, intanto, continuano. Nella bufera sembra finire, adesso, Roberto Calderoli. I pm lo tirerebbero in ballo in relazione ad alcune intercettazioni. In una di queste, infatti, l'ex responsabile amministrativa di via Bellerio, Nadia Dagrada, dice parlando con Belsito: «E invece quelli di Cald (ndv Calderoli) come li giustifico quelli?». E gli investigatori annotano proprio il nome «Calderoli» tra i soggetti destinatari di «rilevanti somme di denaro (...) utilizzate per sostenere esigenze personali (...) estranee alle finalità ed alle funzionalità del partito». Lui si difende: «Ben venga. Si faccia subito chiarezza». Ma queste voci rendono lui più debole nel trimvirato. E sempre più forte il "barbaro sognante".

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