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E nel 1993 i finanziamenti pubblici divennero "rimborsi elettorali"

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Marco Pannella

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Tutto cominciò nel 1993. O meglio sarebbe dire «ricominciò». Perché nel pieno della bufera giudiziaria di Tangentopoli, i partiti si trovarono nella condizione di doversi dare nuove regole. Il referendum abrogativo dell'aprile di quell'anno, infatti, aveva abolito, a stragrande maggioranza (77% alle urne con il 90,3% di sì), il finanziamento pubblico alle forze politiche. Scontato e prevedibile, vista la crescente sfiducia nei confronti della classe dirigente italiana. Poco male, a ottobre, la soluzione alternativa era a portata di mano. In Parlamento arrivava in discussione la proposta di legge dal titolo «Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera dei deputati e del Senato della Repubblica». Un testo che, nella prima parte, si occupava soprattutto di regolamentare l'accesso ai mezzi di informazione. Ma che dall'articolo 7 in poi affrontava il nodo delle risorse da destinare a candidati e partiti. Non più attraverso il finanziamento, ma con rimborsi delle spese elettorali. Cominciava così quel meccanismo che in molti, all'epoca, spacciarono come una «rivoluzione copernicana», la risposta alla domanda di moralità nel Paese. Qualcuno, già allora, aveva intuito come sarebbe andata a finire la storia dei rimborsi elettorali. Basta rileggersi i verbali di quelle sedute parlamentari. La prima cosa che balza all'occhio è la presenza di alcuni di quelli che saranno i protagonisti della scena politica anche negli anni successivi. Come il senatore diessino Cesare Salvi che, da relatore, così parlava il 2 dicembre 1993: «Ci troviamo per la prima volta nel nostro Paese in presenza di una disciplina delle campagne elettorali che introduce quelle regole di moralizzazione, di pari opportunità tra le forze politiche e di controllo sui contributi finanziari all'attività politica, che rappresentano la risposta migliore e più seria che possa essere data, per quanto riguarda questo aspetto, a quella che viene complessivamente definita "questione morale"». Quel giorno Palazzo Madama approvava, in seconda lettura, il testo licenziato un paio di settimane prima dalla Camera. Ed era lì che erano state inseriti alcuni correttivi che avevano fatto andare su tutte le furie il deputato (allora radicale) Elio Vito: «Accadrà che alcune liste si presenteranno non per essere elette, ma per prendere soldi!». Ma davanti a sè Vito, che denunciava tra l'altro il non rispetto del referendum e l'asse Dc-Pds che aveva modificato il testo a proprio piacimento, aveva un muro. E a poco serviva la contrarietà di Rifondazione e Msi. «La politica - spiegava il Dc Giuseppe Serra - ha i suoi costi che vanno pagati, ma la questione va disciplinata separatamente, in modo trasparente, lecito e corretto. Il collega Vito ha prospettato, invece, la possibilità che in qualche modo il rimborso delle spese elettorali rappresentasse, indirettamente, surrettiziamente, una forma di finanziamento dei partiti politici. Noi questo lo escludiamo». O ancora il socialista Franco Piro: «A mio avviso nel momento in cui un cittadino vota per la revoca del finanziamento pubblico, egli certo non sa quali siano le varie forme di finanziamento dell'attività politico-sindacale che lo Stato nel suo insieme garantisce ed assicura». E via con la denuncia del «finanziamento all'attività sindacale», ma anche alla Confindustria («quanti sanno che è finanziata con una diminuzione dell'imponibile giacché le quote di iscrizione sono deducibili? Il collega Formica mi suggerisce che, fra l'altro, anche l'abbonamento al Sole 24Ore è un costo deducibile»). Insomma perché prendersela con i partiti? E poi, fanno notare un po' tutti i sostenitori della norma, i rimborsi elettorali erano già previsti per legge, il referendum non li ha abrogati, ergo basta fissare i criteri e il gioco è fatto. Alla fine la legge prevederà un tetto per le spese elettorali dei partiti o movimenti calcolato moltiplicando 200 lire per il numero complessivo degli abitanti delle circoscrizioni per la Camera e dei collegi per il Senato. Il meccanismo di ripartizione dei fondi, piuttosto complesso, garantirà soldi un po' a tutti. A controllare sarebbe stato un collegio di tre magistrati istituito presso la Corte dei Conti. Intento lodevole: legare le risorse alle spese effettivamente sostenute. Il risultato è cronaca dei giorni nostri. E non era ancora arrivato il letale (per le casse statali) 1997.(1-continua)

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