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Monti: il governo piace, i partiti no Bersani: restiamo insieme o a casa

Il premier Mario Monti con il suo omologo Yoshihiko Noda

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Il faccia a faccia - l'ennesimo, il più duro - è solo "virtuale". I duellanti sono lontani migliaia di chilometri. A Tokyo uno, a Lisbona l'altro. Parlano dell'Italia, però. E degli italiani. È Mario Monti a "menare" per primo. Il premier sferra il suo attacco in mattinata, parlando nella sede del Nikkei a oltre 600 operatori economici e finanziari giapponesi. Per colpire, come spesso accade, si affida ai numeri. «Nonostante il calo degli ultimi giorni, a causa delle misure sul mercato del lavoro, il governo - afferma - gode di un forte consenso nei sondaggi di opinione, ma - ed ecco l'attacco - i partiti no». Le intenzioni del premier sono buone, intende sfatare la tesi secondo cui l'Italia ha un sistema politico instabile. È ai capitali stranieri che punta. «Gli investitori internazionali - è il ragionamento - negli Usa, in Asia e auspicabilmente in Giappone, dicono: "Ok, questo governo non è male per niente: abbiamo deciso di tornare in Italia, ma cosa succederà dopo, fra un anno?" La mia fiduciosa speranza è che questo sia un anno di trasformazione per il Paese», non solo sul fronte del consolidamento di bilancio, per la crescita e l'occupazione, ma anche «perché i partiti politici italiani stanno vedendo che gli italiani sono molto più maturi di quello che pensavano: la gente sembra apprezzare un modo moderato e non gridato di affrontare i veri problemi». Insomma, i cittadini sostengono il governo più di quanto non siano a fianco dei partiti. Ecco perché la riforma del mercato del lavoro passerà, prima dell'estate. Certo - ammette il premier - sicuramente provoca alcuni risentimenti e discussioni anche aspre in questo momento nel Paese, ma ho l'impressione che la maggioranza degli italiani la percepisca come un passo necessario nell'interesse dei lavoratori». Nessuna intenzione, almeno per ora, di modificare alcunché: la parte «amara da ingoiare», dice con un implicito riferimento all'articolo 18, è necessaria per un buon equilibrio della riforma. Il sostegno necessario arriverà attraverso la «persuasione». Le parole di Monti - applauditissime a Tokyo - scatenano le polemiche dall'altro lato del mondo. Il Partito democratico non ci sta. E, stavolta, non è la determinazione sui licenziamenti ad accendere la miccia. Quanto, piuttosto, il passaggio sul consenso. È vero che Monti addolcisce la frase, sottolineando che dietro la simpatia accordata a lui e ai suoi tecnici dai cittadini c'è anche la breve durata dell'Esecutivo. Ma non basta. Da Lisbona Pier Luigi Bersani interviene a gamba tesa. Il segretario del Pd ritrova nello «stucchevole» dibattito tra politica e tecnica «il battibecco tra i polli di Renzo». Di più. «Quando sento la parola partiti - spiega - non mi trovo. Io ho un nome e un cognome e mi chiamo Pd e sto cercando, correndo rischi seri, di collegare il sostegno al governo con la sensibilità verso un Paese ammaccato e profondamente segnato dalla crisi e dagli effetti delle politiche di risanamento». Il leader dei Democratici non vuole certo farsi "scippare" la piazza dal Professore. La gente, ribatte, «viene da noi, io sono fermato per strada e mi si chiede conto dell'azione di governo». Ecco perché «o politici e tecnici convincono insieme il Paese o sotto la pelle del Paese ce ne è abbastanza per prendere a cazzotti politici e tecnici». Anche sulla riforma del lavoro, Bersani non fa sconti: «Non sono un costituzionalista - spiega - ma credo che chiunque veda che un problema di costituzionalità c'è. Serve attenzione su come fanno le norme e una correzione in Parlamento», attacca. «Cerchiamo di essere ragionevoli, ora sull'articolo 18 abbiamo norme che ci differenziano da Paesi europei come la Germania e la Danimarca che vengono ritenuti i migliori nel mercato del lavoro. Andiamo verso questi Paesi e non facciamo come gli Stati Uniti». La mediazione, insomma, è finita. Il segretario del Pd sceglie di contrapporre la «maturità» vista e auspicata da Monti, ai «cazzotti». Aizza la piazza, laddove il premier cerca il consenso. «Tira a campare», direbbe qualcuno.

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