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Tra Bossi e Di Pietro asse anti-governo

Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani (S) e il leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro

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La prima volta che i destini di Umberto Bossi e Antonio Di Pietro si incrociarono fu durante la stagione di Tangentopoli. La Lega "tifava" Mani Pulite e il leader dell'Idv era il simbolo per eccellenza del pool di Milano. Ma tra Tonino e il Senatùr le somiglianze sono molte. Entrambi guidano partiti "minori" che, però, hanno un gran potere contrattuale nei confronti di quelli "maggiori". Non solo, ma parte della loro fortuna l'hanno costruita proprio "succhiando" consensi ai propri alleati. Oggi, tutte e due, si trovano all'opposizione del governo guidato da Mario Monti. Naturale quindi che le sintonie sfocino in una sorte di asse anti-esecutivo. La riforma del lavoro, anche in termini di immagine, è terreno fertile per mettere alla prova questo asse. Così ieri, sia Bossi che Di Pietro, hanno indossato gli abiti dei «rompiscatole» e sono partiti all'attacco. «Non è una riforma, ma una controriforma» ha tuonato il leader del Carroccio. Sottolineando poi che il popolo leghista «non vuole che si tocchi l'articolo 18». Più articolata la posizione dell'ex pm: «La riforma dell'articolo 18 proposta dal governo è l'atto arrogante di prepotenza del nuovo padrone, sobrio, ma sempre padrone. Monti che fa Berlusconi o fa un passo indietro con umiltà o deve fare le valigie e andare a casa. Non si capisce che giovamento può dare all'economia la possibilità per le imprese di far fuori i lavoratori». «Io - ha aggiunto - credo che questa riforma dell'articolo 18 non possa passare e l'Idv farà il Vietnam in Parlamento e la mobilitazione in piazza contro questo governo Berlusconi...ops, Monti...». Parole, quelle di Di Pietro, che pur prendendo di mira il Professore, sembrano avere un "destinatario occulto": il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. E Nichi Vendola lo evoca chiaramente: «Il Pd dovrebbe togliere la fiducia a Monti per non vedersi tolta la fiducia da parte dell'elettorato». Insomma, mentre nel centrodestra la diversità di vedute tra Pdl e Lega non sembra poter produrre particolari sconvolgimenti, a sinistra la situazione appare più precaria. I Democratici sono in evidente difficoltà e gli alleati ne approfittano, magari nella speranza che l'esecutivo cada e si vada ad elezioni. In quel caso, infatti, Bersani avrebbe poco da scegliere e sarebbe costretto a mettere in piedi, in tutta fretta, una coalizione con Idv e Sel. Peraltro senza la certezza di fare il candidato premier. Il segretario sa che il Pd non può permettersi di far cadere l'esecutivo. Per questo continua a lavorare ad una mediazione. «Non è il caso di staccare la spina al governo - spiega replicando a Vendola -. Ci sono cose che vanno in senso positivo come il ripristino del concetto che non ci possono essere dimissioni in bianco così come il fatto che un contratto a tempo determinato debba costare un po' di più. C'è un problema serio ma una soluzione in Parlamento si può trovare». L'unica speranza per i Democratici è questa: cambiare il testo in Aula. Il pressing nei confronti dell'esecutivo è costante, ma c'è da convincere il resto della maggioranza. Angelino Alfano non ha dubbi: «Sulla riforma del lavoro e dell'articolo 18 il Pdl non accetterà di votare una "riformetta al ribasso". È evidente che gli interventi di modifica debbono eventualmente essere bilateralim perché anche noi avremmo le nostre richieste di miglioramento». Bersani prova a gettare acqua sul fuoco: «Non voglio litigare con Alfano ma arrivare a risultati positivi: quella norma deve essere cambiata. Mi rivolgo anche a quelle forze, compreso il Pdl, perché ascoltino il moto dell'opinione pubblica, perché ascoltino le autorità morali. Riflettano sull'esigenza di tenere ben tutelati i diritti del cittadino lavoratore». Se lunedì il leader democratico si era mostrato profondamente deluso dall'atteggiamento dell'esecutivo, ora sembra convinto che alla fine una soluzione si troverà. E già la notizia che l'esecutivo possa affidarsi ad una legge delega, così come chiede il Pd, sembra essere un segnale positivo. Da non dimenticare, poi, il "fattore piazza". Ieri sono state diverse le aziende dalla Piaggio di Pontedera (Pisa) agli stabilimenti Fincantieri (Genova), passando per quelli di Melilli e Augusta (Siracusa), in cui gli operai hanno protestato contro la modifica dell'articolo 18.

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