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Il Tesoro paga il conto di Morgan Stanley

Vittorio Grilli

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Tornano sempre in ballo. Nonostante gli sforzi per contrastarli e annullarli, i derivati, quei prodotti nati come delle semplici polizze per coprirsi dai rischi economici, e tramutati in strumenti speculativi, continuano a nutrirsi delle risorse fresche prodotte dall'economia reale. Della finanza tossica che avvelena i bilanci di aziende e di stati se ne era persa traccia nei mesi scorsi. Anche se in realtà una buona parte delle crisi dell'Eurozona è legata proprio alla loro capacità di minare i conti nei quali sono inseriti. E il caso della Grecia e del suo swap, lo spostamento di alcuni flussi finanziari nei bilanci futuri, è l'esempio lampante della capacità distruttiva della finanza strutturata. Ma se c'è qualcuno che la finanza derivata la compra, c'è sempre qualcuno che la stessa la vende. E sulla stessa fa profitti sempre e comunque. Così quando lo scorso gennaio la banca d'affari Usa Morgan Stanley ha annunciato l'intenzione di ridurre la sua esposizione netta sull'Italia, non ha spiegato ai mercati di averlo fatto perché convinta da una somma ingente di denaro. Secondo quanto riferito all'agenzia stampa Bloomberg da una fonte vicina al Tesoro, l'Italia avrebbe versato 3,4 miliardi di dollari all'istituto di credito americano per chiudere i contratti di finanza speculativa applicati sul bilancio pubblico. L'Italia, il secondo paese più indebitato dell'Unione Europea, avrebbe sborsato la somma per dismettere derivati risalenti agli anni '90 che stavano diventando una pietra al collo della nazione. Roma con quelle operazioni, collocate temporalmente tra il 1996 e il 1999, avrebbe perso circa 31 miliardi di dollari. Sarebbe arrivato dunque il momento in cui diventa più conveniente a livello economico cancellare le operazioni piuttosto che rinnovarle, secondo quanto riferito dalla fonte, che ha chiesto di rimanere anonima. Un'operazione condotta grazie agli ultimi lavori messi in piedi da Mario Draghi prima di lasciare la sedia della Banca d'Italia. E che avrebbe come finalità quella di aprire la strada a una rinegoziazione per modificare la composizione del debito pubblico, allungando al massimo le scadenze e puntando a sfruttare l'abbassamento dei tassi registrato nelle ultime settimane. La tecnologia finanziaria messa in cantiere da Draghi si inserisce nell'ambito di una strategia più complessa che ha come obiettivo ultimo quello di aumentare la tracciabilità dei derivati il cui effettivo valore sfugge a una contabilizzazione ufficiale quando entra nelle contrattazioni del cosiddetto «mercato ombra». Una zona grigia di affari che arma la mano degli speculatori internazionali e mette spesso a repentaglio la stessa sicurezza degli stati nazionali. Il conto pagato dal Tesoro sembra abbastanza salato, e l'operazione «sottobanco» è destinata a scatenare una ridda di polemiche. La cifra che sarebbe stata versata per chiudere le posizioni con la banca Usa equivale a una considerevole fetta dell'ammontare che l'Italia reperirà con le misure di incremento delle tasse quest'anno. Insomma la stretta fiscale messa in pista da Monti con il decreto Salva Italia ha creato un gettito che in buona percentuale sarà stornato nella casse di Morgan Stanley. La decisione sottolinea quanto i contratti derivati rappresentino un rischio per i paesi in difficoltà. Sono strumenti finanziari che vengono usati per trasferire il rischio di credito di un asset da una controparte che compra protezione contro quella che la vende, in cambio di un contributo finanziario. Ai prezzi attuali di mercato, l'Italia, afflitta da un fardello del debito pari a 2.500 miliardi di dollari, ha perso oltre 31 miliardi di dollari sui suoi derivati.La mina dei derivati non sembra essere stata disinnescata. I bilanci degli Stati continuano a essere ostaggio dei contratti accesi dai consulenti delle banche d'affari. E i sacrifici richiesti ai contribuenti rischiano di andare a ingrossare i conti economici degli istituti della finanza anglosassone che, in questi anni, hanno prosperato proprio sui derivati. Non stupisce che uno dei grandi temi della regolamentazione dei mercati finanziari, quelli su cui si trattano contratti legati a swap e derivati, sia così difficile da portare a compimento.

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