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La Giustizia non si amministra sui giornali

Il senatore Marcello Dell'Utri

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La condanna inflitta a Marcello Dell'Utri è stata annullata, il processo d'appello deve essere rifatto. La chiave si trova nelle parole del sostituto procuratore generale presso la Cassazione: «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri». Un principio ovvio, ma troppe volte violato. Per quel che riguarda questo processo il procuratore ha aggiunto: «Nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Non c'è altro da aggiungere. Se non il disagio perché un processo, in quelle condizioni, sia giunto fino al terzo grado. Fra quanti esalteranno e quanti detesteranno tale decisione ce ne sono molti (decisamente troppi) che lo faranno per ragioni di schieramento. Ancora una volta il dibattito pubblico sarà agitato da suggestioni che con il diritto non hanno nulla a che vedere. Quando ho letto le parole appena citate ho anche sperato che una sentenza di quel tipo venisse annullata, come poi è stato, ma ciò non perché consideri Dell'Utri innocente, bensì perché ne risultava evidente l'irregolarità, direi l'inciviltà del processo che lo aveva riguardato. Senza equo processo non c'è mai giusta condanna. Mai. A chi, come noi, segue con attenzione e passione la vita pubblica, politica, economica o giuridica, spetta il diritto di ragionare senza inginocchiarsi davanti alle sentenze (quante volte abbiamo scritto che certe sentenze in materia di mafia non stavano in piedi, fin quando anche le definitive si sono dovute rimettere in discussione). Al tempo stesso, però, a ciascuno di noi, in quanto cittadini, spetta il dovere di rispettare gli esiti processuali. Che non significa necessariamente condividerli, ma comunque accettare che quelle siano le conclusioni della giustizia. La confusione fra sentenze, politica e storia è uno dei più evidenti sintomi del disfacimento culturale e morale, che da troppo tempo ci affligge. Chi ama il diritto, aspirando a vivere in una società ove ci sia giustizia, sa bene che la colpevolezza e l'innocenza non s'amministrano né al bar né sui giornali, ma nei tribunali. Come sa che ciascuno di noi deve essere considerato innocente fin quando una sentenza definitiva non attesti il contrario. Senza distinguo, senza furbizie, senza la bestialità di calunnie che si difendono dietro il copiato di atti giudiziari la cui sola ragione d'esistere è l'essere finalizzati alle sentenze. Che sono le uniche a contare. Perché questo sia possibile, perché la libertà si sposi con il diritto, dando luogo a una società sana, occorre che il processo sia giusto e non viziato da pregiudizi. Occorre che l'imputato possa difendersi, senza nel frattempo essere sbranato da quella che François Mitterrand, allora presidente della Repubblica francese, definì «una muta di cani arrabbiati» (lo fece dopo il suicidio di Pierre Bérégovoy). Finché si sentono quei latrati non si vive né con giustizia né con libertà. La requisitoria del procuratore, ieri, s'è soffermata su un altro punto, che i nostri lettori conoscono di già: il «concorso esterno in associazione di stampo mafioso» è divenuto un reato autonomo, benché i suoi contorni siano a dir poco confusi. Il codice punisce il concorso, come anche il favoreggiamento, mentre quello strano ibrido è stato prodotto da leggi poco chiare e giurisprudenza ardita. È appena il caso di ricordare che senza certezza della legge, e univocità della sua lettura, non può esserci giustizia, e che un reato deve essere chiaro nella sua definizione. Questo non lo è. L'accusa deve riferirsi a un fatto, e quel fatto deve riconoscersi in un reato. Il resto somiglia più ai processi alle streghe che non a un accettabile diritto. Il processo Dell'Utri è da rifare. Null'altro, oggi, si può dire.

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