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La disperazione di Bersani davanti al forfait di Alfano

Pierluigi Bersani, segretario del Pd

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Di "incredibile", come ha protestato Pier Luigi Bersani commentando il rifiuto di Angelino Alfano di partecipare ieri al vertice di maggioranza con lui e con Pier Ferdinando Casini, costringendo Mario Monti a rinviarlo, c'è solo o soprattutto la disinvoltura, al limite della disperazione, del segretario del Pd. Il quale, alle corde nel suo partito per gli incidenti accumulati nelle primarie della sua alleanza con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro per le elezioni comunali del 6 maggio, ha cercato l'altro ieri goffamente di uscire dall'angolo dando l'impressione di volere e potere creare un rapporto privilegiato con Pier Ferdinando Casini. A questo e non ad altro mirava l'incontro fra i due, in vista del vertice annunciato per il giorno dopo con il presidente del Consiglio, visto che i critici interni del segretario del Pd, sempre più numerosi e insofferenti, avevano appena attribuito alla ormai troppo ingiallita foto di Vasto con Vendola e Di Pietro la figuraccia rimediata a Palermo con la bocciatura della candidatura di Rita Borsellino a sindaco. Che Bersani aveva calorosamente caldeggiato considerandola particolarmente adatta, anzi l'unica adatta a cementare quell'alleanza celebrata in fotografia. E sottovalutando, fra l'altro, non solo le forti tensioni locali interne al suo partito ma pure l'imbarazzante logoramento di una candidata obiettivamente famosa più come sorella di Paolo Borsellino, l'eroico magistrato ucciso dalla mafia vent'anni fa, noto sul piano politico per le sue simpatie di destra, che come una persona dalle incalcolabili potenzialità di amministratrice. Bersani e la sua ormai mancata candidata a sindaco di Palermo presumono forse di potersi consolare con quei "soli" 151 voti di vantaggio sulla Borsellino conseguiti dal vincitore delle primarie Fabrizio Ferrandelli, un giovane già passato obiettivamente per troppe formazioni o esperienze politiche. E possono pure sperare di raccogliere qualche soddisfazione postuma tra le pieghe dell'inchiesta giudiziaria apertasi sulla vicenda. Ma rimarrà pur sempre cocente la delusione di una candidatura così tanto sopravvalutata, come quella appunto della Borsellino, da raccogliere meno di un terzo dei trentamila voti espressi dal "popolo delle primarie" mobilitatosi, o mobilitato, a Palermo. Dove non il direttore Mario Sechi su questo giornale ma un elettore dichiaratamente di sinistra come Francesco Piccolo ieri sulla insospettabile "l'Unità" ha trovato la conferma delle primarie, almeno per il modo in cui vengono gestite, come di "uno strumento inventato e coltivato dal Pd per la sua distruzione". La distruzione -ha impietosamente spiegato l'illustre scrittore e sceneggiatore- di un partito che ha una "forza centripeta gigantesca" e una "direzione politica fragilissima". È proprio a questa fragilità, appunto, che Bersani ha ritenuto l'altro ieri di rimediare con quell'incontro con Casini. Che è diventato ancora più imprudente per la partecipazione del ministro tecnico della Giustizia Paola Severino. Che non poteva non provocare e moltiplicare i sospetti del e nel Pdl. Il cui segretario ha giustamente protestato mandando Bersani a pettinare bambole, spazzolare animali e smacchiare giaguari, come dice il suo impareggiabile imitatore Maurizio Crozza. Un'altra cosa incredibile, essa sì, è che si sia prestato ad una simile operazione il solitamente furbo, anzi furbissimo Casini. Che pure ha investito prima, più e meglio di Bersani su Monti e sul suo governo tecnico, facendone persino uno spartiacque per il futuro della politica italiana. Se vi è una strada per sgambettarlo e indebolirlo, è proprio quella imboccata l'altro ieri con un incontro inevitabilmente destinato a rappresentare un asse privilegiato, o solo la ricerca di un asse tanto privilegiato quanto esiziale, per giunta su temi così scottanti come la giustizia e la Rai, nella maggioranza di emergenza formatasi attorno a Monti. Evidentemente anche a Casini è scivolato il piede sulla frizione. Ma torniamo a Bersani e ai suoi problemi di conduzione del Pd, fatta purtroppo più di improvvisazioni che d'altro, più di contraddizioni che di coerenze, più di rimesse che di iniziative. Alla stessa scelta di appoggiare il governo Monti, nello scorso autunno, quando Silvio Berlusconi decise responsabilmente di dimettersi da presidente del Consiglio per non alimentare una miscela esplosiva di speculazioni finanziarie e politiche ai danni del Paese, e non solo suo, Bersani arrivò malvolentieri, diciamoci la verità. Vi giunse più per il rifiuto del capo dello Stato di imboccare in quelle drammatiche condizioni economiche e finanziarie la strada delle elezioni anticipate che per una convinta rinuncia all'effimera prospettiva di una vittoria elettorale inconcludente. Che avrebbe generato un governo destinato a rivelarsi incapace, per la disomogeneità dei partiti che lo avrebbero composto, o solo sostenuto nelle aule parlamentari, di assumere una decisione, dico una, in linea con gli impegni derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Ue. Anche la decisione, certamente apprezzabile, di far disertare dai dirigenti del Pd l'imminente manifestazione della Fiom contro il governo con il supporto dei no-tav ha seguìto, non preceduto, il rifiuto di Giorgio Napolitano di accreditare in qualche modo le proteste, e relative violenze, di quel movimento ricevendo i sindaci della Val di Susa che ne fanno parte.  

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