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Bersani perde ancora. Ora rischia il posto

Pd, Pier Luigi Bersani e Rita Borsellino

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Se le vittorie hanno normalmente centinaia di "padri" le sconfitte, si sa, sono spesso "orfane". Non quelle del Pd. Nel giro di poche settimane i Democratici hanno dovuto digerire il successo di Marco Doria (sostenuto da Sel) alle primarie per le comunali di Genova e, ieri, quella dell'ex Idv Fabrizio Ferrandelli a Palermo. Entrambi erano degli outsider chiamati a sfidare i candidati ufficiali proposti (anche se forse sarebbe meglio dire imposti) da Roma. Il padre della sconfitta, quindi, è tutt'altro che ignoto: il segretario Pier Luigi Bersani. E se in Liguria a sostegno "dell'imputato" c'erano delle attenuanti generiche, in Sicilia la responsabilità è totale. E apre l'ennesimo processo all'interno del partito. Dopotutto stavolta Bersani ci ha messo la faccia. Ha lanciato e sostenuto (secondo il terzo candidato alle primarie Davide Faraone anche economicamente) Rita Borsellino. Ha difeso l'idea di un'alleanza di governo con Idv e Sel. Ha perso. Così c'è chi alza la voce. Qualcuno, come il senatore Pd Giuseppe Lumia tra i sostenitori di Ferrandelli, si spinge fino al punto di ipotizzare le dimissioni del segretario («valuteremo se chiederle»). Ma il candidato sindaco in pectore prova a smorzare i toni: «Non esiste un "caso Bersani", semmai un caso Palermo. Non siamo qui per tagliare le teste, ma per aggiungerne e ora bisogna far quadrato e trovare insieme il modo di stare uniti per questa città». Lo stesso leader del Pd allontana l'idea di uno scontro all'ultimo sangue: «Le primarie dovunque non sono mai un pranzo di gala, certo non possono diventare una resa dei conti». Quindi spiega che se problemi ci sono, si tratta di «problemi politici». «Le primarie - aggiunge - sono un meccanismo che sicuramente favorisce il rapporto con i cittadini. Ma certo non risolvono i problemi politici. Se correzioni vanno fatte al meccanismo, è per mettere la politica prima delle primarie, per decidere se e come. Non bisogna escludere che ci siano più candidati del Pd ma deve essere una situazione straordinaria. Se invece è a rischio il profilo politico serve una discussione». Ora è proprio su questo punto che insiste la minoranza dei Democratici. Dagli uomini più vicini a Walter Veltroni fino ad Enrico Letta si sottolinea come la sconfitta di Borsellino coincida con una bocciatura della ormai famosa «foto di Vasto» e, quindi, di un'alleanza organica con Idv e Sel. Ma anche su questo punto Bersani non ci sta: «Non so cosa c'entri la foto di Vasto con Palermo. Tutti i candidati a Palermo hanno sottoscritto il patto del centrosinistra e con il centrosinistra abbiamo vinto a Torino, a Milano, a Bologna. Non credo ci siamo sbagliati». A parte la netta divergenza di vedute tra il segretario e il suo vice (segno evidente della spaccatura interna al partito), è chiaro che la discussione è tutt'altro che marginale. Per ora la minoranza, che non vuole che ciò che è accaduto a Palermo venga derubricato a semplice incidente di percorso, non parla di congressi anticipati né invoca le dimissioni di Bersani. E chiede piuttosto la convocazione di una direzione. L'impressione è che si voglia prendere tempo mantenendo una certa pressione sul segretario, ma senza rompere. Il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: quale sarà il Pd del dopo-Monti? Su questo Letta e Veltroni hanno le idee chiare e sono già al lavoro (più il primo che il secondo). Lo scenario immaginato lo ha descritto Eugenio Scalfari nel suo editoriale di domenica: dopo le amministrative il Pdl potrebbe implodere; a quel punto Pier Ferdinando Casini e i suoi ne raccoglierebbero, rinforzandosi, i cocci; il Pd potrebbe quindi stringere un patto con il Terzo Polo per mantenere Mario Monti a Palazzo Chigi e Giorgio Napolitano al Quirinale aprendo così una stagione costituente che spazzi via gli ultimi rimasugli del berlusconismo. Bersani, che sogna di fare il candidato premier, è ovviamente contrario a questa ipotesi. Un aiuto potrebbe arrivare comunque dal voto di maggio. Il Pdl, in caduta libera, potrebbe far saltare il tavolo delle riforme e rispolverare l'asse con la Lega. A quel punto, con una legge elettorale che difficilmente cambierà, il Pd potrebbe ritrovarsi al fianco di Sel e Idv.

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