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Laico tassare e pio esentare

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Da miscredente cresciuto in Italia, quindi in un Paese che intreccia la propria storia con quella vaticana, è inevitabile che nel mio sangue scorra qualche goccia di anticlericalismo. È una presenza che non mi piace, la considero un residuato tossico del passato. Di quella caratteristica genetica trovo traccia anche nella pubblica discussione sull'imposizione dell'Imu agli edifici ecclesiastici, come se tassare sia laico, mentre esentare sia pio. La via fiscale all'espiazione non mi convince punto. Intanto perché non mi piacciono i raggiri, e questo lo è, sotto diversi aspetti. Lo è l'imposta in sé: nata come Isi (governo Amato, lo stesso del prelievo notturno dai conti correnti), ovvero imposta dove la «s» stava per «straordinaria», mentre ce la ritroviamo stabilizzata come eterna; poi ridenominata Imu, dove la «u» sta per «unica», salvo il fatto che si accompagna a molte altre. Lo Stato laico mente dicendo, peggio dell'ecclesiastico e vile Don Abbondio, con il suo latinorum. Il raggiro sta anche nell'imposizione: già prima le attività religiose dovevano pagare, ma godevano d'esenzione per tutti quegli immobili adibiti ad attività «non esclusivamente commerciale», dopo di che è facile immaginare che praticamente tutto rientrava nell'eccezione; ora si gira la frittata e l'esenzione scatta solo per le attività condotte «con modalità non commerciale», e nel caso di uso misto si dividono i metri quadrati e si paga per quota parte. Non ci vuole Nostradamus per immaginare il ginepraio che ne verrà fuori. Non a caso il governo sostiene che il gettito reale sarà calcolabile solo a consuntivo, che è come dire: non abbiamo la più pallida idea di come funzionerà e quanto genererà. Mistero, ma non della fede. Ammettiamo che si riesca, nel Paese manzoniano di Azzeccagarbugli, a definire efficacemente il concetto di «modalità commerciale», e ammettiamo che d'ora in poi gli istituti religiosi paghino. Domandiamoci: è giusto? Sono le risposte scontate quelle che m'inquietano, perché nascondono trappole micidiali. Meglio uscire dall'astrazione e venire alla realtà: molte iniziative religiose fanno concorrenza sleale ad albergatori e ristoratori, perché offrono servizi analoghi e patiscono tassazione inferiore. Non è giusto ed è bene che la cosa si sani. Nel caso dell'istruzione, però, ci troveremmo in una realtà rovesciata, perché le scuole pubbliche non pagano l'Imu. Le scuole religiose, del resto, sono (giustamente) attività commerciale, nel senso che chiedono soldi alle famiglie, quindi dovrebbero rientrare fra i pagatori, ma rientrandoci si crea una disparità. Abbiamo alle spalle già sessanta anni di discussioni sulla previsione costituzionale, contenuta nell'articolo 33, circa la libertà di aprire scuole private, ma «senza oneri per lo Stato», che ha prodotto un doppio onere per le famiglie, ove decidano d'usare la libertà di scegliere la scuola dei propri figli. Ma non è questo il guaio principale, bensì il doppio vincolo che ha asfissiato il mercato della cultura e della formazione, portando i soldi a finanziare ordini religiosi o disordini laici. Sappiamo tutti che fra gli istituti religiosi ve ne sono di qualità, ma aperti solo a chi se lo può permettere, mentre fra i laici ce ne sono tanti che servono solo a far passare gli esami. Non ha mai funzionato la previsione costituzionale circa le borse di studio per «i capaci e i meritevoli» (articolo 34), mentre l'ottusa permanenza del valore legale del titolo di studio ha fatto proliferare oragizzazioni truffaldine e aduse alla diffusione dell'ignoranza. A pagamento. Rispetto a questa realtà dovrei, da miscredente, rallegrarmi per il fatto che le scuole cattoliche subiranno una tassazione sconosciuta alle statali? Non mi rallegro proprio per nulla, anche perché mi rimangono due sospetti: a. che la definizione di «commerciale» richiederà l'intervento di Giuseppe Gioacchino Belli; b. che si finirà con l'esentare le madrase mussulmane, in omaggio ad una laicità demente, che considera libertà l'adesione a culti diversi e asservimento la pratica cattolica. Non mi rallegro perché l'utilità collettiva non deriverà mai da un uso punitivo dell'imposizione, ma da una legislazione sollecitativa della libera concorrenza. Anche nella cultura, certo. Una concorrenza che gioverebbe molto alla scuola pubblica, fin qui, assai poco laicamente, più santificata che valorizzata.  

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