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Quel sosia eletto al Quirinale

Oscar Luigi Scalfaro

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Dell'uomo e del politico Oscar Luigi Scalfaro sono stato a lungo tra gli estimatori e amici. Di un'amicizia da lui ricambiata e rafforzata da una comune disavventura, al termine del congresso nazionale della Dc nel 1976, conclusosi con l'elezione diretta di Benigno Zaccagnini a segretario. Alcuni scalmanati, di notte, ci attesero all'uscita per deriderci e gridarci: «Per voi borghesi è finita». Io lavoravo al Giornale. Lui si era inutilmente speso per l'elezione di Arnaldo Forlani. Memore anche di quella notte, stentai a riconoscerlo nei panni di presidente esordiente della Repubblica nella primavera del 1992. Fui talmente sorpreso, diciamo pure traumatizzato, dal contributo che il nuovo capo dello Stato decise di dare, sotto l'effetto delle indagini e degli arresti per Tangentopoli, allo sconfinamento delle Procure della Repubblica che mi rifugiai in un'allucinazione. Pensai e scrissi che quello in attività al Quirinale fosse un sosia di Scalfaro, essendo stato quello vero sequestrato da qualche misteriosa banda. Fu naturalmente anche la fine della nostra amicizia. L'ombra del sosia mi comparve la prima volta il giorno in cui seppi che il Presidente, alle prese con gli incontri politici di rito per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 5 e 6 aprile di quell'anno, aveva ritenuto di consultare anche il capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per informarsi sulle indagini note come "Mani pulite". E ne ricavò la convinzione che Bettino Craxi, per quanto destinato a ricevere i primi avvisi di garanzia solo a fine anno, dovesse sin d'allora pagare pegno. Al suo posto egli mandò a Palazzo Chigi Giuliano Amato, facendolo proporre dallo stesso segretario del Psi. La seconda volta l'ombra del sosia mi comparve nel 1993, quando il Quirinale annunciò che Scalfaro aveva negato la firma a un decreto legge appena varato dal governo per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Eppure l'allora Guardasigilli Giovanni Conso riteneva di avere concordato ogni cosa direttamente o indirettamente con il capo dello Stato. Ma, tra le decisioni del Consiglio dei Ministri e l'annuncio del diniego della firma del presidente della Repubblica, vi fu una clamorosa protesta pubblica del capo della Procura di Milano in persona. Si era ormai passati dalle Procure della Repubblica alla Repubblica delle Procure. Di lì a poco l'ombra del sosia tornò a farmi capolino con un messaggio televisivo del presidente della Repubblica contro il tentativo mediatico da lui ravvisato di coinvolgerlo in una brutta storia di fondi segreti passati anche per le sue mani, o i suoi uffici, negli anni in cui era stato il ministro dell'Interno di Craxi. A chiamarlo in causa erano stati alcuni funzionari finiti sotto indagine e in carcere. Ai quali poi nella Procura di Roma, anche a costo di contrasti interni rivelati in un libro da Francesco Misiani, che ne aveva fatto parte, si decise di reagire contestando loro il reato gravissimo di attentato al funzionamento delle istituzioni. «Io non ci sto», gridò il capo dello Stato nel pieno della bufera davanti alle telecamere. Ma per uscire davvero dalla vicenda, riproposta con un esposto giudiziario dal suo ex amico ed ex guardasigilli Filippo Mancuso, egli dovette aspettare la fine del suo mandato presidenziale. Un'altra volta ancora l'ombra del sosia mi comparve nella primavera del 1994. Fu quando il capo dello Stato, non potendo proprio fare a meno di conferire l'incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, uscito vittorioso dalle urne del 27 e 28 marzo, decise e annunciò di accompagnarne la nomina con una lettera quanto meno inusuale di indirizzo politico. Il nuovo capo del governo avrebbe dovuto attenervisi nella sua azione, al di là degli stessi vincoli parlamentari connessi alla fiducia. Impertinente e ossessiva, quell'ombra tornò dopo qualche mese ad allungarsi. E trovò anche una descrizione nei racconti di Umberto Bossi. Che rivelò, in particolare, la cordialità e gli incoraggiamenti ottenuti al Quirinale nella preparazione della prima rottura con il Cavaliere. Fu sul Colle che il leader leghista si sentì assicurare che una crisi di governo non sarebbe sfociata nelle elezioni anticipate, temutissime allora dalla Lega. Esse infatti seguirono non di pochi mesi ma di più di un anno il primo allontanamento di Berlusconi da Palazzo Chigi e la sua sostituzione con Lamberto Dini: il tempo necessario perché la sinistra e il centro post-democristiano si organizzassero sotto l'Ulivo di Romano Prodi e vincessero le elezioni del 1996. Tre anni dopo si concluse il mandato presidenziale di Scalfaro. Ed io mi illusi che fosse finito anche l'incubo del sosia. Ma mi sbagliavo. Anche da ex presidente, o presidente emerito della Repubblica, continuarono a mischiarsi e a sovrapporsi impietosamente nella mia immaginazione i due Scalfaro: quello buono di una volta, scampato con me alla «fine dei borghesi», e quello irriconoscibile del Quirinale. E di Palazzo Madama, dove egli continuò a ritenersi mobilitato contro il Cavaliere, sia quando questi era di suo all'opposizione, sia quando questi tornò al governo. E osò varare nel 2006 una riforma della Costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi del Parlamento, per cui fu necessaria la verifica referendaria. A guidarne la campagna fu proprio Scalfaro, avvolto sulle piazze nella bandiera di una Repubblica e di una Costituzione a suo avviso minacciate dal Cavaliere. Se quella riforma non fosse stata bocciata, avremmo potuto avere già adesso, fra l'altro, meno parlamentari e un bicameralismo differenziato. Un'occasione quindi mancata grazie anche a lui. La cui morte merita naturalmente rispetto, ma non l'ipocrita partecipazione ad un coro d'elogi sperticati.

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