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Credere o non credere nella moneta unica

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L'indice di fiducia dei consumatori americani è salito da 55,2 punti a 64,5 di dicembre: ben più del previsto. Il risultato tempera la delusione per un altro indicatore, quello Schiller dei prezzi delle case, in calo dell'1,2 per cento. Il dato sui consumatori del Conference Board, organizzazione no profit che utilizza un panel della multinazionale Tns-Global market research, è infatti uno degli appuntamenti chiave mensili assieme al fratello-concorrente dell'Università del Michigan, anche lui in rialzo. Ad essere carogne si potrebbe raffrontare la fiducia degli americani alla non fiducia degli europei, calata di un punto. Quanto all'Italia il superindice Istat delle aspettative generali registra una picchiata di 5,9 punti. Situazione misurata sul campo degli acquisti natalizi, in aumento negli Usa e in ritirata da noi. Ma la vera domanda è un'altra: perché in America la fiducia dei consumatori, le vendite di case e l'occupazione, sono indicatori tanto importanti da determinare le previsioni elettorali (infatti Barack Obama inizia a credere nella rielezione), mentre da questa parte dell'Atlantico ci logoriamo nervi e portafoglio con deficit, Pil, e spread? Possibile che gli Usa, la culla della finanza, diano più importanza ai comportamenti e ai bisogni della gente comune, mentre l'Europa, dove sono nate e prosperate tutte le dottrine sociali dell'altro secolo, ormai si inginocchia davanti al rigore macroeconomico e ai mercati? La risposta sta in ciò che vedete stampato su un dollaro (o su un penny) e sugli euro. «In God we trust» si legge sui biglietti verdi: «Noi fidiamo in Dio». Cresciuti come siamo nel continente del politicamente corretto, possiamo giudicare inappropriata la commistione tra Creatore e Mammona. Eppure «In God we trust» dal 1956 è anche il motto ufficiale degli Stati Uniti, dopo avere soppiantato «E pluribus unum» che resta nel sigillo presidenziale. Semplificando, se un cittadino americano ha fede in Dio ce l'ha anche nel dollaro, e viceversa. Ora prendete una moneta o una banconota in euro: che cosa vedete? L'Uomo Vitruviano di Leonardo. Portali romanici ma anche gotici. Viadotti medioevali, contrafforti rinascimentali e moderni ponti sospesi. Mozart e Cervantes. L'aquila germanica e la genziana austriaca. Una sfilza di regnanti. Non mancano la civetta di Atena, il cigno selvatico finlandese, il cavallo lipizzano sloveno. La stessa parola Bce è scritta in cinque lingue diverse. Il carattere dell'euro è latino, ma anche greco. Una moneta comune o la somma di tante gelosie nazionali? Dov'è il tratto unificante? E come è simboleggiata la fiducia in questa moneta? Tanta retorica europeista non è riuscita a condensarsi in quelle quattro parole che identificano il dollaro. Anzi, non è riuscita ad identificarsi in niente: sull'euro non c'è la garanzia di uno stato sovrano. Neppure la semplice parola «Europa». Certo, può apparire facile dirlo ora che l'euro è in crisi, e l'Europa lacerata non su come vivono i suoi cittadini, né su quello in cui credono, ma sugli spread, sui tassi e sui Cds. Eppure fra tre giorni cade un compleanno per il quale non si preparano fuochi d'artificio: alla mezzanotte del 31 dicembre 2001 il primo presidente della Bce, Wim Duisemberg, distribuì una coppa di champagne e alcune banconote (precedentemente pagate) della moneta unica; poco dopo spuntava l'alba su una nuova avventura. Siamo già al tramonto? In Inghilterra e negli Usa si susseguono piani B sulla dissoluzione dell'euro: così, dopo che il governatore della Bank of England ha detto «tenetevi pronti», il governo ha messo in allarme le navi di Sua Maestà per un eventuale rimpatrio dei cittadini britannici dalle spiagge elleniche (o magari spagnole e italiane). Più concretamente sulla Swift, la società che gestisce i server più potenti del mondo per le transazioni valutarie, piovono richieste di aiuto tecnologico e backup di portafogli in caso di ritorno alle dracme, alle lire, ai marchi. Il problema, ovviamente, non è solo di banconote e monetine e di quel che c'è scritto sopra. Gli Usa hanno subito il declassamento di Standard & Poor's. La Francia ha tuttora la tripla A. Eppure lo spread del buono del Tesoro americano, che al primo gennaio era di 32 punti oggi è di otto. Quello francese è passato da 40 a 200. Per non parlare dell'Italia. Nel frattempo il debito americano ha raggiunto il 100 per cento del Pil, mentre il debito spagnolo è al 60: ma il tasso d'interesse richiesto al T-Bond è sceso al 2,03, sfidando la Germania. Al contrario il Btp italiano si è inerpicato a 7,07. E tra oggi e domani vanno in asta tra i 14 ed i 18 miliardi di Bot, Btp e Ctz; mentre entro il 2012 il Tesoro dovrebbe chiedere al mercato 450 miliardi di euro. La suspense si taglia a fette. E tornano a circolare ipotesi di patrimoniale, proposta da ultimo da Carlo De Benedetti, o addirittura di allungamento forzoso del debito, suggerito dall'economista Luigi Zingales. Tutto questo dopo la cura da cavallo di Monti. Ma ha senso? Oppure noi, e l'Europa intera, stiamo sbagliando tutto? Per farsi un'opinione bisogna guardare nuovamente agli Usa. Dove si moltiplicano i bilanci su Ben Bernanke, il grande capo della Federal reserve. «Helicopter», il celebre soprannome per la sua linea di affrontare l'emergenza gettando denaro fresco sull'economia, ha certo commesso i suoi errori. Però ha fronteggiato la doppia crisi del 2008 e del 2011 seguendo la bibbia tramandata dal New Deal di Franklin D. Roosevelt: «Mai più una Grande depressione». Bernanke non è un seguace di Keynes è anzi un monetarista alla Milton Friedman.   Eppure proprio Friedman individuò la causa prima della crisi degli anni Trenta nel rigore sul credito attuato dalla Fed. E nel 2002, celebrandone il 90mo compleanno, Bernanke ringraziò lui e la sua coautrice Anna Schwartz: «Avevate ragione. Sbagliammo tutto; grazie a voi questo errore non si ripeterà più». E oggi il benessere degli americani torna a crescere. Chiamatelo pragmatismo rispetto alla tetragona ortodossia tedesca. Fatto sta che ora che il Brasile ha superato il Pil dell'Inghilterra, abbiamo questa graduatoria: Usa, Cina, Giappone, Germania, Francia, Brasile, Inghilterra, Italia, Russia, India. Per il 2020 le previsioni vedono ancora Usa, Cina e Giappone ai primi tre posti; ma subito dietro Russia, India e Brasile. Poi Germania, Inghilterra, Francia e Italia. I paesi euro sono in coda, tedeschi compresi. Siamo proprio sicuri di andare nella direzione giusta?

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