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Tempi e concertazione i due errori del premier

Il ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture Corrado Passera

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Il governo Monti avrebbe dovuto evitare due errori: pensare di agire in due tempi e negoziare il contenuto dei provvedimenti. Avevamo avvertito questi pericoli fin dal primo momento, considerando favorevolmente il suo insediamento proprio perché la missione da compiersi era chiara: agire subito e senza farsi bloccare da interessi strutturati e conservatori. Non abbiamo mai avuto il minimo dubbio sulla legittimità del governo in carica, non solo perché ha ricevuto la fiducia del Parlamento, che è l'aspetto formale, ma perché il suo non essere politico discende non da un esproprio, ma da un fallimento della politica.   È un guaio, però, se della politica prende i vizi e della natura tecnica non porta i frutti. Il decreto governativo ha mostrato due punti deboli: a) contiene alcuni errori tecnici e, b) è costituito per la gran parte di tasse. I primi era lecito non aspettarseli, da un tale consesso di sapienti, il secondo è un errore, perché fin da subito era chiaro che la missione di rendere sostenibile il debito poteva essere assolta solo a tre condizioni: 1) che si suturi la ferita istituzionale dell'euro, che rende aggredibili i debiti sovrani e fa crescere gli spread, ovvero la distanza fra i tassi in capo a paesi diversi; 2) che si ponga un freno alla spesa improduttiva e corrente, talché il debito non continua a crescere per i fatti propri, in assenza di quale che sia corrispettivo per i cittadini; 3) che si metta l'Italia nelle condizioni di crescere, in questo modo alleviando il peso del debito pubblico. La prima cosa ha a che vedere con la sede europea, rispetto alla quale oggi si conferma il nostro punto di vista: l'ultimo consiglio europeo s'è concluso in modo largamente deludente, quindi pericoloso. Le altre due sono faccende interne, e i pochi elementi relativi alle liberalizzazioni erano i residui segnali che s'intendeva operare in quella, giusta, direzione. Sono proprio quelli che stanno cadendo. Il taglio della spesa è stato concentrato sulle pensioni, anticipandone i tempi della già approvata riforma. Ho ritenuto e ritengo giusta questa scelta, sebbene non abbia condiviso la deindicizzazione del potere d'acquisto. I tempi previsti dalla legge erano irragionevolmente lunghi, e quelli che erano stati accorciati (da una maggioranza di centrodestra) erano poi stati nuovamente diluiti (da una maggioranza di centrosinistra). Togliere l'adeguamento all'inflazione, invece, ha un effetto recessivo, perché la gran parte dei pensionati spende quel che incassa, e se incassa un valore reale inferiore deve contrarre i consumi, deprimendo il mercato. Per non parlare delle tasse, compresa la mania di randellare i conti correnti degli italiani, come se tenere i soldi in banca sia una specie di privilegio o di lussuria. Anche questi sono provvedimenti depressivi. Necessari? Sì, se accompagnati dal superamento dei difetti strutturali dell'euro. Altrimenti inutili, perché quei soldi corrono il serissimo rischio d'essere vaporizzati sul braciere degli spread. Quel che, invece, di queste manovre dovrebbe restare, vale a dire le sane politiche di privatizzazioni e liberalizzazioni, invece viene progressivamente sterilizzato e ritirato, fino a scomparire. E siccome non ci sarà un secondo tempo, perché quello a disposizione del governo si esaurisce in fretta, così come si dissolve la spinta propulsiva che ne ha accompagnato la nascita, ecco che si rischia di restare con il bastone e perdere la carota. Il che è paradossale, ma anche spiegabile: la parte dolorosa delle manovre si spalma su un vasto pubblico di vittime, i cui gemiti si confondono con il vociare degli astanti, mentre la parte promettente e liberalizzante s'insinua negli interessi solidi di specifiche categorie, la cui reazione si fa subito sentire e valere. I sindacati che proclamano alcune ore di sciopero generale compiono un atto inutile, di cui ci s'è accorti più che altro in edicola. Ma le farmacie che minacciano la serrata sono un problema più specifico e avvertito, quindi temibile.   Il problema, però, è il seguente: se il governo dei professori e dei tecnici, che non deve prendere voti, non resiste nemmeno ai tassisti, di grazia, chi potrà mai avere fiducia che sia in grado di sfidare rendite di ben più profondo spessore? Dopo di che arriva a ruota il secondo quesito: posto che per fare una manovra di tasse non c'era bisogno di scomodare tante onorabili persone, essendo sufficiente un ragioniere, allora, a che serve un governo siffatto? Quando sostenni che il governo non avrebbe dovuto trattare alcunché, ne concertare con alcuno, ma presentare i propri provvedimenti al Parlamento con la dicitura «prendere o lasciare», non intendevo certo sollecitare il mancato rispetto del legislatore, ma ricordare che il governo Monti non sarebbe mai nato se le forze politiche di maggioranza non avessero fallito e quelle di minoranza non fossero incapaci di una alternativa. Ove il governo accetti di spezzettare i provvedimenti e discuterli a tocchi, per giunta attestandosi sulla linea, usata e perdente, del considerare i «saldi invariabili», allora smarrisce la sua ragion d'essere. E con quella si perde anche la giustificazione del perché sta governando chi non è stato eletto. Accettare la sterilizzazione e il rinvio dei pochi lampi liberalizzatori, inizialmente contenuti nel temporale di tasse, ha implicazioni notevoli. Faranno bene a pensarci due volte, perché mollarli equivale a mollare la corda cui si è aggrappati.

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