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La partita del Quirinale tra pressioni e critiche

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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Un abisso ha separato ieri Giorgio Napolitano e Umberto Bossi. Ed ha segnato la gravità della situazione politica, al di là dello scenario di una crisi formale di governo. Mentre il leader leghista, e ministro delle Riforme, paragonava ad una «fucilata» alla schiena del presidente del Consiglio l'insistenza con la quale Banca Centrale e Unione Europea reclamano severe misure per garantire, fra l'altro, la solvibilità dei titoli dell'ingente debito pubblico italiano nei mercati finanziari, il capo dello Stato ha riconosciuto con tanto di nota ufficiale la necessità di «rendere più credibile il nostro impegno ad abbattere tale debito e a rilanciare la crescita economica». «Più credibile» significa evidentemente che l'impegno non lo è stato sinora a sufficienza, e che hanno quindi ragione Banca Centrale e Unione Europea a tallonarci, anche se Napolitano ha lamentato le «inopportune e sgradevoli espressioni pubbliche», cioè risate e risatine, usate nei riguardi di Silvio Berlusconi e dell'Italia dal presidente francese Sarkozy e dalla cancelliera tedesca Merkel nella infelice conferenza stampa di domenica scorsa. Nel contesto e nello spirito del suo intervento, sembra più una smentita degli smodati timori di Bossi che un monito ai pur scortesi Sarkozy e Merkel anche la convinzione espressa da Napolitano che «nessuno minaccia l'indipendenza del nostro Paese o è in grado di avanzare pretese da commissario». Tanto è vero che il capo dello Stato ha chiuso la nota osservando che «per l'Italia è il momento di definire in materia di sviluppo e di riforme strutturali» – dalle quali non potrebbe ovviamente prescindere un intervento sul costosissimo e ormai scandaloso fenomeno delle pensioni anticipate di anzianità – «le nuove decisioni di grande importanza annunciate dal presidente del Consiglio». Che lo aveva fatto anche lui con una nota ufficiale il giorno prima, cercando di colmare l'esito inconsistente di una riunione straordinaria di governo provocato dall'atteggiamento dei ministri leghisti. Che in materia di pensioni ritengono di «avere già dato» consentendo nei mesi passati limitatissimi e perciò inutili interventi. La Lega, il suo leader e suoi ministri non sono comunque gli unici destinatari ravvisabili nell'ultima sortita del presidente della Repubblica. Che sta dispiegando in questo passaggio difficilissimo della vita politica e istituzionale del Paese tutte le sue capacità persuasive e dissuasive, secondo i casi, procedendo anche ad esplicite consultazioni «informali» di esponenti di tutti gli schieramenti, definite generalmente «pre-consultazioni» per distinguerle da quelle che per prassi vengono condotte in occasione di una crisi formale di governo. In quest'ultimo caso sfilano al Quirinale ordinatamente, dopo i presidenti delle Camere, i presidenti di tutti i gruppi parlamentari e i segretari dei rispettivi partiti per fornire al capo dello Stato elementi utili a fargli maturare le decisioni che gli spettano: dal conferimento di incarichi «esplorativi», se evidentemente il quadro politico dovesse risultargli ancora da approfondire, al conferimento dell'incarico di formare un nuovo governo o, in extremis, allo scioglimento anticipato delle Camere, con il solo obbligo – in questa evenienza – di «sentire» nuovamente e preventivamente i loro presidenti, come prescrive l'articolo 88 della Costituzione. Delle pre-consultazioni di questi giorni ha colpito un particolare tra gli osservatori politici, ai quali si può ben applicare una ormai famosa battuta di Giulio Andreotti, secondo cui a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina. Ad andare al Quirinale l'altra mattina per il maggiore partito di opposizione, il Pd, è stato il vice segretario Enrico Letta e non il segretario Pier Luigi Bersani. La spiegazione ufficiale di questa scelta è stata l'assenza di Bersani da Roma, impegnato in quelle ore a Bologna insieme con il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. Il quale però, proprio perché trattenuto a Bologna, è stato consultato dal capo dello Stato con il telefono, per cui analoga procedura si sarebbe potuta adoperare con il segretario del Pd. Il quale, per giunta, è tornato nella Capitale, sempre l'altro ieri, in tempo per tenere alle ore 18 una conferenza stampa. Che poteva essere preceduta, per ovvie ragioni di cortesia e di opportunità, da un salto, diciamo così, al Quirinale o in altra sede dove incontrare il presidente della Repubblica e fornirgli direttamente gli elementi di informazione e di giudizio affidati in mattinata al vice segretario del partito. Ad alimentare i sospetti di una causa non accidentale ma politica, e critica, di questo mancato incontro di Napolitano con Bersani ha contribuito dopo alcune ore la presidente del Pd Rosy Bindi a «Otto e mezzo», de la 7. Dove alla conduttrice televisiva Lilli Gruber, comprensibilmente curiosa di sapere che cosa Enrico Letta fosse andato a dire la mattina al capo dello Stato, la Bindi prima ha opposto una comprensibile ritrosia a rispondere per ragioni di riservatezza, ma poi si è lasciata andare ad alcune osservazioni che sono apparse pertinenti o comunque riferibili proprio a quell'incontro. In particolare, la presidente del Pd ha detto, mostrando un certo nervosismo con gesti e smorfie, che la sua parte politica aveva già dato prova di responsabilità e serietà accogliendo inviti del capo dello Stato in questa direzione, per esempio consentendo, pur da posizioni contrarie, la rapida approvazione parlamentare dei decreti legge adottati dal governo per le manovre finanziarie di luglio e di agosto, con tutte le loro varianti in corso d'opera con lo strumento del voto di fiducia. D'altronde, il segretario del Pd aveva poche ore prima ribadito nella sua conferenza stampa la richiesta delle dimissioni di Berlusconi e della conseguente apertura della crisi: una ricetta non proprio collimante con le sollecitazioni del Colle al governo non a dimettersi ma a adottare i provvedimenti attesi dalla Ue.

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