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Servono i fatti non gli ultimatum

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Il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia

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Il presidente di Confindustria presenta un documento programmatico, articolato in cinque punti, e dice: o il governo provvede subito ad attuarli oppure noi industriali non continueremo il dialogo. Un vero e proprio ultimatum. Nel documento sono comprese proposte condivisibili, che noi ripetiamo da tempo, ma ho l'impressione che Confindustria non abbia tutte le carte in regola per adottare il linguaggio militaresco. I tanti ultimatumisti forse non se ne rendono conto, ma è proprio questo l'atteggiamento che rende difficile il necessario. Gli industriali propongono liberalizzazioni e privatizzazioni nei servizi pubblici locali. Giusto. Però, scusino, quando si celebrava un referendum contro questa roba, con il governo che s'era squagliato e rimpiattato, noi continuavamo a difendere tali idee, mentre industriali ed editori di giornali (in gran parte gli stessi gruppi) tacevano o, nel migliore dei casi, si dilettavano nei colpi alternati al cerchio e alla botte.   Confindustria ha ragione anche quando chiede maggiore concorrenza nella fornitura di energia elettrica, ma immagino non sfugga loro che oltre a distribuirla si deve anche produrla e se la bolletta italiana è troppo alta è perché ne produciamo troppo poca. Anche qui, come sopra, noi non ci siamo sottratti alla difesa del nucleare, mentre le opposizioni strillavano, il governo scappava e Confindustria taceva. Perché Emma Marcegaglia non trovò, allora, qualche cosa da dire. E con il giusto piglio? Verissimo: la riforma costituzionale del Titolo quinto ha sfasciato il Paese, disperdendo ancora di più competenze e responsabilità. Ma quella parte è stata poi nuovamente riformata, in senso decisamente più unitario, come oggi chiede Confindustria, solo che la sinistra convocò il referendum, il centro destra, al solito, si diede alla fuga, noi difendemmo la riforma e Confindustria non fece un fico secco. E tre. Le pensioni. Certo che vanno riformate, certo che l'età pensionabile deve crescere, ma dubito che ciò sarà possibile firmando accordi con i sindacati confederali, tutti contrari. Anzi, a proposito, come mai il documento degli industriali non chiede maggiore elasticità del mondo del lavoro? Cos'è, avere fatto l'accordo con i sindacati suggerisce di scantonare? Le tasse. È vero, la pressione fiscale su lavoro e imprese deve diminuire, ma dire che va compensata con una patrimoniale significa prendersi in giro. Se la si impone sull'intero patrimonio immobiliare funziona, ma non si tassa il lavoro per tassare lavoratori e famiglie. Se la si impone solo sui «ricchi», va a finire che nella categoria non rientrano neanche tanti industriali. Ci sto io e non ci stanno loro. Signora Presidente, le pare normale?   Insomma, come ha ben spiegato Luca Ricolfi, assomiglia più a uno slogan che a un programma. In quanto ai tagli dei costi della politica e delle provincie, suvvia: lasciamo certi toni ai comizianti. Chi sa quel che dice sa anche che la compressione di quei costi è moralmente indispensabile, ma contabilmente minuscola. Le provincie non si tagliano in tempi utili, e meno ancora la spesa relativa. Sarebbe come se sostenessimo che per risanare i conti si devono tagliare i 30 miliardi annui di finanziamento alle imprese private, a fondo perduto, cui si aggiungono le tante rendite dei contratti pubblici (come nella sanità, Confindustria non se ne ricordi solo quando si tratta di criticare i tagli), che generano poca occupazione e nessuna ricerca e innovazione. E, si badi, effettivamente lo sostengo, ma senza quel di più demagogico. Che guasta. Tutto ciò, sia chiaro, non per dire che il governo ha fatto il dovuto. Magari! Le mancanze dell'esecutivo sono state qui criticate senza pietà alcuna. Ma la politica degli ultimatum sta sullo stesso piano di quella che dice: finché ci siamo andiamo avanti. Cioè da nessuna parte.

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