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Ma il popolo tv è già «volato» altrove

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Bambini davanti ad uno schermo tv di nuova generazione

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Dei programmi Rai si parla spesso, ma, a parte qualche commentatore specializzato, solo per due ragioni: a. per denunciare la faziosità di questo o quel personaggio, da una parte o dall'altra che sia; b. per criticare la loro scarsa qualità, la tendenza alla commercializzazione e alla massificazione. Della Rai azienda, invece, si parla essenzialmente per dire che la lottizzazione è uno scandalo e il canone una tassa intollerabile. Il bello di queste posizioni è che, nel loro opporsi le une alle altre, si fanno compagnia da molti anni, senza che nulla cambi. La realtà attorno, invece, cambia. Velocemente. Proviamo a far discendere le proposte politiche da un ragionamento concreto. Per capire quel che succede basterà paragonare noi stessi ai nostri figli: noi ci chiedevamo «cosa c'è in televisione?», loro scelgono direttamente il contenuto che li interessa, cercandolo fra le varie piattaforme di cui dispongono (tv, tv satellitare, giochi con memoria propria o in rete, computers, smartphone). Non si chiedono quale sia il programma in uno di questi contenitori, ma scelgono il mezzo a seconda del contenuto che desiderano. Ciò ha travolgenti conseguenze sia sul modello sociale che sul modello di business. La televisione tradizionale ha modellato e trasformato la società. Non credo affatto che l'abbia «condizionata», ma la potenza del mezzo ha inciso sulla realtà. Un esempio facile: prima della televisione l'italiano era spesso la seconda lingua, dopo il dialetto. Mia nonna livornese e mia nonna marsalese si parlavano con simpatia, ma a fatica. Poi tutti hanno imparato il televisionese. E, si badi, la lingua della Rai era bella. È stata quella del doppiaggio dall'americano, per i film, ad avere imbastardito l'idioma. Accanto a quello linguistico c'è stato l'effetto informazione: tutti coloro che guardavano la televisione facevano parte di una medesima comunità, con informazioni comuni. Restavano opinioni e gusti diversi, ma la base identitaria era quella. Il digitale ha offerto un mondo diverso, nel quale i nostri figli sono nativi (possono credere che la ruota sul telefono fosse un gioco o il filo un antifurto). La loro comunità è potenzialmente assai più vasta, perché un gioco on line può essere disputato con chi si trova agli antipodi, ma è anche frammentata. All'interno di uno stesso palazzo il giovane del primo piano potrebbe aver visto un programma sulle vetture, che lo appassionano, quello del secondo un approfondimento sulle api, al terzo hanno giocato con uno di Singapore, al quarto si sono intrattenuti con un social network. Grande libertà, evviva, ma nulla in comune. In ascensore non hanno argomenti da condividere, se non quelli condominiali. È un problema. A me toccava «A come agricoltura», poi «La nonna del corsaro nero», a seguire i compiti. Prendere o lasciare. Loro possono farsi una cultura infinita sull'innesto delle viti, ove mai li intrighi, ma possono interagire anche senza accendere la tv. Tutto questo si riflette sul business, sul modo in cui si finanziano le trasmissioni. In origine c'era il monopolio: il cittadino paga il canone, lo Stato aggiunge di suo e ciò paga i conti. Carosello apporta anche i soldi della pubblicità, posto che c'era assai più domanda che offerta di spazi televisivi. Il modello della televisione commerciale è diverso: interessare le persone alle trasmissioni in modo da vendere la loro presenza davanti agli schermi agli inserzionisti pubblicitari, ovvero agli unici che pagano. Da qui nasce l'ossessione per l'audience: più persone guardano un determinato programma più sale il prezzo degli spazi pubblicitari. Entrambi questi modelli sono in crisi. Il primo perché mi sono abituato ad avere le cose gratis e quindi non le voglio pagare, sicché detesto il canone. E quando pago, come nel caso del satellite, è perché mi danno di più, molto di più. Il secondo perché le persone davanti allo schermo invecchiano e diminuiscono. Senza offesa: ma sono i meno svegli, i meno colti, quindi anche i meno interessanti per i consumi, quelli che restano fissi al vecchio modello. Rai e Mediaset si disputano lo share, vale a dire la percentuale di pubblico rispettivo, ma omettono di dire che la torta complessiva è rimpicciolita. I giovani, ad esempio, sono da un'altra parte. Il celeberrimo «duopolio» ha, fin qui, salvato la Rai. Proprio così: il conflitto d'interessi, che c'è, s'è sposato con la lottizzazione, mettendo a braccetto la destra e la sinistra, nella speranza di conservare l'esistente per l'eterno. Invece capita che un bel numero di persone resterà ancorato a quel sistema, mentre il resto vola ed è già volato via. Non scomparirà, ma si ridurrà. Domanda: chi lo paga? Per il privato provvede il mercato, ma per il pubblico non si può credere che i cittadini possano provvedere ancora a lungo, con il canone. Ciò senza aprire l'annosa discussione su cosa sia un «servizio pubblico» (che la Rai non è). La vedo in questo modo: la memoria storica appartiene allo Stato, l'archivio Rai è pubblico, il resto può essere venduto, il canone cancellato. Fuori dall'ossessione dell'audience e nel mondo della frammentazione digitale, c'è ampio spazio per programmi di qualità. Il punto è diverso: i canali televisivi funzionano come i supermercati, e se li vendi tutti agli stranieri quelli piazzano negli scaffali i loro prodotti. Come si fa a non ammazzare l'industria nazionale che produce contenuti, il che equivarrebbe ad impoverirsi? Operando all'opposto di oggi: noi abbiamo tanti canali nazionali, Rai compresa, colmi di format stranieri; agevoliamo, con adeguati spazi trasmissivi, canali ad alto tasso di made in Italy. Credo che sarebbe un successo internazionale. In ogni caso la politica dipendente dal duopolio cesserebbe d'essere uno strazio nazionale.

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