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I giudici protagonisti e la società totalitaria di Orwell

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Ve li ricordate Napoleon e Snowboards? Sono i due giovani maiali che in Animal Farm, il divertente ma inquietante racconto di George Orwell, guidano la rivolta degli animali sfruttati da mister Jones nella tranquilla fattoria Manor. I maiali sono i più intelligenti tra i pacifici e rassegnati abitanti della fattoria e ne costituisco una minoranza, ma una minoranza organizzata e decisa a cambiare le cose. Guidano la rivolta, cacciano mister Jones dalla fattoria, subito ribattezzata Animal Farm, e vi instaurano un regime regolato da «sette comandamenti». La «presa di potere dei maiali» si rivela, però, poco alla volta, disastrosa. Lotte di potere, congiure, epurazioni portano alla trasformazione del nuovo regime in una vera e propria dittatura – diciamo così – «giustizialista» basata su un solo comandamento: «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Insomma, la «presa di potere dei maiali» si risolve nella creazione di quello Stato totalitario, dominato dall'odioso e onnipresente «Grande Fratello», che nel suo angoscioso 1984 sempre il solito Orwell ha descritto ed esorcizzato. Questa storia (con le sue inevitabili conseguenze) della «presa di potere dei maiali» di orwelliana memoria appare, mutatis mutandis, come una metafora della (poco) resistibile ascesa di un manipolo di guardie scelte di una parte della magistratura, quella militante e politicizzata, intenzionata a imporre il giustizialismo e il moralismo. Anche questo manipolo, come i maiali di Orwell, è una «minoranza organizzata» costituita di persone intelligenti, di intelligenza superiore alla media, che coltivano un disegno eversivo: un disegno che rischia, per usare le parole con le quali il buon Francesco Cossiga nel 2008 incitava Berlusconi al combattimento, di portare al «peggiore dei governi, il governo dei giudici, anzi, peggio, dei pubblici ministeri». Per riprendere la fosca metafora di Orwell il comandamento unico di questo governo potrebbe compendiarsi nella formula: «tutti i cittadini sono uguali alla legge, ma alcuni sono più (o meno) uguali degli altri».   Il «governo dei giudici, anzi peggio dei pubblici ministeri», la bestia nera del mai troppo poco rimpianto Cossiga, non si è formalmente instaurato. Tuttavia, nella storia dell'Italia del dopoguerra – fin da quando Togliatti ebbe la ventura (per lui, ma sventura per l'Italia) di guidare il dicastero della giustizia e gestire le immissioni di personale nelle file della magistratura – c'è stato, sempre, un vivace manipolo di «toghe rosse» che ha concepito come suo dovere quello non tanto di amministrare la giustizia secondo la legge quanto piuttosto di utilizzare la legge per imporre il giustizialismo: un manipolo di pretoriani, quasi un «doppio Stato» al fianco o al di sotto o al di sopra dello Stato ufficiale, investito della missione di garantire la purezza antifascista della Costituzione e il futuro progressista del Paese. Il suo protagonismo, per dir così, pubblico è cresciuto – e non poteva essere altrimenti – dopo l'ingloriosa fine della prima repubblica a seguito sia degli eventi internazionali connessi con il tracollo dei paesi fondati sul socialismo reale sia della stagione di Tangentopoli. La stagione berlusconiana venne percepita, a torto o a ragione, come un tentativo di alterare gli equilibri che avevano garantito l'esistenza stessa del «doppio Stato» dei pasdaran del giustizialismo e, altresì, come un tentativo di far cambiare direzione alla storia. In tale quadro Berlusconi è stato innalzato al rango di «nemico oggettivo» e, in quanto tale, non da combattere ma da annientare. Ed è proprio in una logica del genere che su di lui si è abbattuta (e continua ad abbattersi) una persecuzione giudiziaria che non ha eguali nella storia. Una persecuzione che ha come fine ultimo la distruzione politica dell'uomo e, come risultato immediato, la caduta del governo da lui presieduto. Senza, peraltro, tener presente il fatto che il solo stesso tentativo di provocare la caduta di un governo per via giudiziaria equivale a un colpo di Stato strisciante. In una democrazia parlamentare e rappresentativa – lo hanno ben ricordato illustri commentatori come Sergio Romano e Piero Ostellino – i governi, liberamente eletti, cadono soltanto in Parlamento con un voto di sfiducia ovvero per le dimissioni del premier. Ogni altra ipotesi, rappresenta, prima ancora che una violazione della carta costituzionale, un vulnus al concetto stesso di democrazia. Il che, però, importa poco o nulla a quella parte barricadera della magistratura che con il suo giustizialismo auspica una società totalitaria. Come quella nata dalla «presa di potere dei maiali» di Orwell.

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