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C'è un Cav che sembra D'Annunzio

Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi

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«Ecco, dopo ventiquattro ore di orgia possente e perversa, dormo undici ore continue (...). Vado subito a cercare, nel risveglio, "il piatto freddo" nel corridoio buio. Mangio avidamente - non come un principe ma come un minatore - prendo le fette con le belle dita. O sapori della giovinezza! O incanto della fame, che trasmuta in ambrosia e in nettare il prosciutto cotto e il porto Ruby». Basterebbero queste poche righe dannunziane - si avete letto bene, dannunziane (e non berlusconiane) - per spiegare le ragioni del nostro disaccordo con l'ottimo Francesco Merlo, giornalista e collega di Repubblica, quando scrive, a proposito del Cavaliere e del suo linguaggio: «Berlusconi è il più trito turpiloquente di questa Italia con la patta sbottonata, non è D'Annunzio né Bukowski che cercava la macchina da fottere». A parte, caro Merlo, che del buon Charles Bukowski si rammentano soprattutto le sbronze, a noi il linguaggio del Cavaliere pare dannunziano, futurista, marinettiano, traslato ai tempi d'oggi - certo - e ad un immaginario che si trova a metà strada tra la lingua della tv ed il decadentismo. Lasciamo perdere gli aspetti dell'inchiesta - non essendo né magistrati né avvocati - per soffermarci sull'abbecedario al telefono, quello che in molti hanno evidenziato come «il degrado lessicale del berlusconismo». Secondo noi c'è - tra le righe - in quel vocabolario della «patonza», un'ossessione inconsapevole, urgente, di fuggire alla vecchiaia ed alla morte. Eugenio Scalfari, tempo fa, in un'intervista rilasciatami per La7 (e trasmessa nel programma In Onda), ha riassunto magistralmente le molle dell'agire umano nei secoli: «Tutto quello che noi facciamo, in modo consapevole ma quasi sempre inconsapevole, è per fuggire dalla morte».   Perché per il Cav. dovrebbe essere diverso? Certo, ognuno imbocca la propria di strada verso l'immortalità. Ma la letteratura, abituata all'indecenza della vita, ci ha avvezzi pure allo stupore ed all'oscenità del linguaggio: se il Gabriele D'Annunzio vecchio e vate, recluso nell'automuseo del Vittoriale, parlando di sé a se stesso insegue ciò che più non ha - la giovinezza - sussurrando di spegnersi per non consumarsi, Filippo Tommaso Marinetti, nei suoi Taccuini (editi da Il Mulino) dal fronte della I guerra mondiale, dove la morte è pietanza quotidiana nelle trincee, inchiostra sulla carta l'adrenalina del pericolo e dei corpi, scaricata nel sesso (e non solo): «Trovo due puttanelle modenesi coi miei amici. La Gigetta, simpaticissima tipa di magra scattante amante d'apache. Elegante e spiritosa. È venuta per Tellini. Mangiano con noi. La sua amica brutta e goffa dice: "Mi sono fatta sverginare da un soldato di fanteria perché era bello e parlava bene". È una cretina brutta». E più avanti: «Non ho voluta prenderla perché mi piaceva troppo misteriosamente. - "Con chi dormirò questa notte?", domanda la Gigetta. "Con me" - dice Mattoli. "Per me è lo stesso con l'uno o con l'altro", precisa distrattamente la Gigetta». Parole sottratte all'osceno, come la rabbia del poeta Boris Vian che non vuol crepare senza aver visto almeno i cani messicani «... e i baci di quella! Si, insomma quella, signori. Ursula. Ursulotta. La più bella orsacchiotta fra tutte le orse maggiori. Quella per la quale proprio non vorrei crepare senza averla avuta tutta. Goderla la bocca nella bocca, i bei seni nelle mie mani, poi con gli occhi il resto e … Basta! Questi son fatti miei». Perché come ha scritto Giacomo Casanova (che di donne e di vita se ne intendeva), «morire è come uscire dal teatro quando lo spettacolo non è ancora terminato». Non si dovrebbe.

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