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Torniamo all'Italia dei Comuni

Roma, la protesta dei piccoli comuni contro i tagli

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Una battuta gustosa di quel toscanaccio di Roberto Benigni: "Cosa sarebbe l'Italia senza la Toscana? L'Emilia Romagna sbatterebbe nell'Umbria. La Liguria scivolerebbe nel Lazio. Ci sarebbe un capovolgimento totale. E cosa sarebbe la Toscana senza Firenze? Come fa uno da Arezzo ad andare a Bologna?". Una battuta, paradossale certamente, e tutta - è ovvio - toscanocentrica. Ma, al di là del paradosso, la domanda è seria, anche se andrebbe formulata in maniera più radicale (e con uno spirito completamente diverso da quello dell'artista) in questi termini: che cosa sarebbe l'Italia senza la Toscana, senza l'Emilia Romagna, senza il Lazio e via dicendo. Senza, insomma, le regioni? Sarebbe sempre l'Italia. Anzi, sarebbe, forse, sempre più, l'Italia. In questi ultimi tempi, mentre va in scena la farsa tragicomica del varo di una manovra apprezzabile solo nell'impegno promesso nella caccia agli evasori e invece, per molti versi, tanto profondamente illiberale da apparir degna delle più fosche e occhiute democrazie popolari, la sacrosanta indignazione popolare contro gli sprechi ha lambito i costi della politica e finalmente sta toccando la questione del malfunzionante e gravoso sistema del cosiddetto decentramento amministrativo e delle autonomie locali. L'idea che le provincie siano enti inutili, puri e semplici centri di spesa, idrovore di pubblico denaro, strumenti di duplicazione di funzioni e, per ciò stesso, di appesantimento della macchina burocratica è, appunto, una idea che si sta facendo strada. E l'impegno del governo a provvedere, con una legge di natura costituzionale, alla loro eliminazione è un impegno sacrosanto che va nella direzione della riduzione dei costi della politica e della razionalizzazione e ammodernamento della macchina statale. Vedremo che cosa ne verrà fuori e speriamo bene. Il passaggio della legge costituzionale è un passaggio obbligato, proprio perché le provincie sono nominate nella Costituzione e chi - soprattutto tra le forze di opposizione - invocava la loro immediata eliminazione, facendo finta di ignorarlo, obbediva alle regole non scritte della demagogia fondata sulla ignoranza e sulla cattiva fede. Adesso, però, i margini per i giochi ambigui si sono ristretti. Il pallino dell'eliminazione delle provincie sta, ora, nelle mani delle opposizioni, oltre che naturalmente, del governo. Tutti insieme, se avessero senso di responsabilità e senso dello Stato, potrebbero approvare in tempi rapidi una legge costituzionale, una legge cioè che richiede una maggioranza qualificata, concepita in un solo breve articolo che decreta la scomparsa di questo ente inutile. Debbo confessare che non sono ottimista perché sono convinto che, al dunque, l'antica vocazione italica alla difesa corporativa di interessi piccoli e grandi e, con essa, la sotterranea pulsione antinazionale, antiunitaria e antistatale serpeggiante, da sempre, nel Paese, si faranno vivi per affossare, magari anche ricorrendo all'interruzione della legislatura, il previsto provvedimento. E, con esso, anche l'altro provvedimento, pure di natura costituzionale, relativo al dimezzamento dei parlamentari. Ma proprio perché non sono ottimista - e temo che i discorsi sulla riduzione dei costi della politica siano destinasti a rimanere chiacchiere per i sordi - vorrei addirittura alzare il tiro e richiamare l'attenzione sulla inutilità dell'altro ente di decentramento previsto, accanto alle province e ai comuni, dalla Costituzione, cioè le regioni. Roberto Benigni difende - l'ho ricordato in apertura - la Toscana, per difendere tutte le regioni. Ma riflettiamo. Che cosa sono state le regioni, nella storia della nostra repubblica, se non strutture che hanno contribuito in maniera massiccia all'incremento del debito pubblico e alla elefantiasi burocratica oltre che alla moltiplicazione delle poltrone e alla gestazione di situazioni di malaffare sistematico e continuato? Non è una esagerazione. Agli albori della repubblica, la costituzione fu varata all'insegna di una sostanziale ambiguità fra la tradizione francese della "repubblica una e indivisibile" e il programma di decentramento amministrativo che recepiva istanze autonomiste e federaliste emerse già ai tempi della polemica risorgimentale e postrisorgimentale sulla struttura accentrata dello Stato. Però, come fece notare Giuseppe Maranini - ampie e forti autonomie periferiche avrebbero potuto contribuire al buon governo democratico, per un verso, solo se fossero state bilanciate da un forte potere centrale in grado di prescindere dagli interessi locali e di compensare le spinte centrifughe e, per altro verso, solo se l'autogoverno locale non fosse stato ricalcato sul modello del parlamentarismo partitocratico centralizzato. Quando finalmente, nel 1970, l'ordinamento regionale divenne operativo con l'effettiva creazione delle regioni e una prima devoluzione ad esse di funzioni amministrative, ci si rese conto che nessuna di quelle due condizioni veniva rispettata. Lo Stato partitocratico, malgrado le apparenze o le dichiarazione, era sostanzialmente debole e i parlamenti regionali replicavano, quanto a livello di sprechi e difetti e quanto a tasso di politicizzazione, il parlamento nazionale. E - come e più velocemente ancora di quanto accadde a livello nazionale - strutture pubbliche e sottogoverno politico ed economico si autoalimentarono in un circuito di operazioni malavitose, favoritismi, malaffare e malgoverno. Le previsioni più fosche degli avversari liberali del regionalismo - penso alle belle e sulfuree pagine di Panfilo Gentile - si avverarono. Questi fece notare, per esempio, come quasi sempre le regioni rappresentavano "una semplice espressione verbale" dietro la quale non c'era "niente di reale" e osservò che, anzi, v'erano casi nei quali alcune regioni (per esempio la Lombardia, il Piemonte e la Liguria) avrebbero potuto "costituire un'unica vasta regione" che potremmo definire macroregione. Accanto alle provincie, enti superflui e spreconi, anche le regioni potrebbero, e forse dovrebbero, essere ripensate nel quadro di un processo di ammodernamento dello Stato. E se ciò significasse la sopravvivenza dei soli comuni, poco male. Se insieme alle province sparissero le regioni e si salvassero solo i comuni si avrebbe una risposta alla provocazione di Benigni: meno regioni, più Italia.

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