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Penati è inguaiato. Ma non va in carcere

Filippo Penati

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Filippo Penati non va in carcere. Non perché il giudice per le indagini preliminari abbia riconosciuto la sua innocenza ma solo perché il reato di cui è accusato dai pubblici ministeri è prescritto. Se la cava così l'ex vicepresidente del consiglio regionale lombardo per il quale i magistrati di Monza avevano chiesto l'arresto per un presunto giro di tangenti relative alle aree ex Falck e Marelli di Sesto San Giovanni. Le indagini hanno puntato a ricostruire alcune procedure amministrative relative a interventi di carattere urbanistico. Secondo l'accusa sarebbero state corrisposte, o promesse, somme di denaro per agevolare il rilascio di alcune concessioni o per impostare secondo determinati criteri il Piano di Governo del Territorio. Penati si è salvato dall'arresto perché il gip Anna Magelli ha cambiato il reato di cui era accusato da concussione in corruzione, meno grave e per il quale i tempi di prescrizione sono più brevi. Ma il giudice per le indagini preliminari ha comunque riconosciuto che esistono «numerosi e gravissimi fatti di corruzione posti in essere da Filippo Penati e da Giordano Vimercati nell'epoca in cui questi rivestivano la qualifica di pubblici ufficiali, prima presso il Comune di Sesto San Giovanni e poi presso la Provincia di Milano». Però, spiega ancora, «l'applicazione di qualsivoglia misura cautelare è preclusa dall'intervenuta causa di estinzione del reato» per prescrizione. «Per quanto attiene ai fatti di corruzione posti in essere da Penati e da Vimercati, si tratta di episodi che risalgono agli anni '90 e agli anni dal 2000 al 2004» per cui dunque è intervenuta la prescrizione. E con Filippo Penati si è salvato dall'arresto anche il suo braccio destro Giordano Vimercati. In carcere sono finiti invece ieri l'ex assessore Pasqualino di Leva e l'architetto Marco Magni per concorso in corruzione nell'ambito della stessa inchiesta. Per il gip, infatti, il presunto giro di tangenti era inserito «nella cornice di un sistema di corruzioni che ha contraddistinto per lungo tempo la gestione della cosa pubblica da parte di alcuni pubblici amministratori». Pasqualino Di Leva e Marco Magni avrebbero dimostrato, scrive ancora il giudice nell'ordinanza, «pervicacia» nel «perseverare nella loro illecita attività», mostrando anche una «spiccata» capacità «a delinquere» oltre che una «pericolosità sociale». Cade, invece l'accusa a Penati di finanziamento illecito al partito, all'epoca i Ds. La prova, per il gip, è «incentrata su un solo elemento obiettivo», che riguarda il «pagamento della somma di 2 milioni di euro», elemento che «non è certo sufficiente a far ritenere che» quei soldi siano «effettivamente» confluiti «nelle casse del Partito Democratico». Gli imprenditori Piero Di Caterina e Giuseppe Pasini, scrive ancora, «quando hanno pagato le somme di denaro richieste loro da Penati hanno al più supposto ed ipotizzato che almeno parte delle stesse potessero confluire al partito», ma da loro non è poi arrivata alcuna «dichiarazione (ai pm, ndr) sufficientemente precisa e circostanziata».

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